Al via Cop26, il mondo al capezzale del clima in disordine sparso

L’appello di Papa Francesco ai leader globali di prendere delle «decisioni radicali» al vertice sul clima che si apre oggi a Glasgow, in Scozia, rischia di rimanere inascoltato. L’assenza dei leader di Cina e Russia Xi Jinping e Vladimir Putin sembra minare già dalle fondamenta un summit che potrebbe non trarre grossi benefici nemmeno dall’esito del G20, che nonostante i proclami della vigilia non dovrebbe andare oltre i soliti impegni generici contro il surriscaldamento globale.

Il trasferimento dei grandi del Pianeta dalla Nuvola dell’Eur allo Scottish Exhibition Campus di Glasgow fa sì che i primissimi giorni della Cop26 diventino quelli decisivi del negoziato. Un ruolo fondamentale gioca, oltre ai padroni di casa, anche l’esecutivo italiano, co-organizzatore dell’incontro rinviato causa pandemia nel 2020.

Alla Conferenza sul clima di Parigi nel 2015, i paesi hanno concordato di lavorare per mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi rispetto all’era pre-industriale, puntando il target di 1,5 gradi (al momento siamo a 1,1). Se la Cop21 francese è stata importante perché si è raggiunto l’accordo su un obiettivo, la Cop26 dovrebbe stabilire più nel dettaglio come raggiungerlo. Il tutto tenendo in debita considerazione che per rispettare la prima scadenza del 2030, fissata per invertire il trend della crisi climatica attraverso il taglio di almeno il 40% dei gas serra, non manca tanto. Purtroppo c’è poco da stare allegri. Quest’anno è stato chiesto ai governi di rendere pubblici i loro nuovi piani d’azione. L’ultima stima dell’Onu sulla base di tutti quelli presentati prima del vertice di Glasgow mette il mondo su una traiettoria di riscaldamento di ben 2,7 gradi. Una catastrofe.

La pessima notizia è che alcuni paesi chiave del G20 come l’India, inoltre, i loro piani aggiornati non li hanno nemmeno presentati. Altri, quali Australia e Russia, hanno dei piani non in linea con l’accordo di Parigi. Ed è di questi giorni l’annuncio della Cina di voler aumentare la produzione di carbone – il più inquinante dei combustibili fossili – per far fronte alla crisi energetica. Un provvedimento che di fatto allenta l’impegno per la crisi ambientale di Pechino – non a caso Xi Jinping ha preferito «evitare» la trasferta europea – e costituisce un colpo basso per il Premier britannico Boris Johnson, che a Glasgow vorrebbe raggiungere un phase out globale sul carbone, allo stato dei fatti difficile da ottenere.

Va inoltre stabilito come i diversi paesi debbano misurare e riportare le loro riduzioni di emissioni e quanto sono trasparenti gli uni con gli altri. Senza un meccanismo efficace si rischia di sprofondare nel greenwashing più assoluto. Un ennesimo lascito della Conferenza di Parigi è quello di fissare delle regole per i mercati del carbonio, in particolare su come le imprese si possono scambiare crediti di carbonio, ossia permessi di inquinamento. Questi permessi sono assegnati dai governi o generati da progetti che dovrebbero assorbire anidride carbonica, quali la conservazione delle foreste o la riforestazione. Operazioni spesso contestate per la loro efficacia e che comportano impatti per le popolazioni locali, in particolare i popoli indigeni.

I mercati del carbonio sono già regolamentati in Unione Europea, Cina e California, ma funzionano anche su base volontaria in altri paesi e per alcuni settori. La creazione di un unico mercato di carbonio che armonizzi quelli esistenti lascerebbe lo stesso domande aperte sull’efficacia ultima dello strumento e i costi del funzionamento, premiando più alcuni paesi di altri. Motivo per cui alla scorsa Cop di Madrid del 2019 non si è raggiunta alcuna intesa su questo dossier. Poi c’è il delicatissimo tema dei fondi. I paesi in via di sviluppo hanno bisogno di aiuto per la transizione verde e per adattarsi al cambiamento climatico. Ma gli aiuti sono stati erogati fin troppo lentamente.

Nel 2009 e di nuovo nel 2015, i paesi ricchi hanno accettato di fornire 100 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti per il clima ai paesi in via di sviluppo entro il 2020, ma non hanno ancora raggiunto questo obiettivo – siamo sotto gli 80 miliardi. Il Regno Unito ha rivelato un piano di finanziamento per il clima, mediato da Germania e Canada, che stabilirebbe un processo per mettere a disposizione i fatidici 100 miliardi, ma non prima del 2023. Tuttavia a Glasgow si deve pensare a più fondi da trovare dopo il 2025, perché visti i crescenti effetti della crisi climatica è scontato che di denaro ne servirà molto di più.

In attesa di sviluppi dal centro congressi sulla riva del fiume Clyde, in quello che fu il cuore della Glasgow industriale, la società civile locale e internazionale farà sentire forte e chiara la sua voce.

Il 5 e 6 novembre sono in programma due manifestazioni, la prima è il climate strike dei ragazzi e delle ragazze dei Fridays for Future, con una marcia guidata da Greta Thunberg, la seconda coinciderà con il global day of action che si stima possa portare per le strade di Glasgow almeno 100mila persone. Extintion Rebellion ha già fatto sapere che inscenerà azioni non violente che avranno «impatti rilevanti» nei giorni del vertice ufficiale.

Dal 7 al 10 novembre si terrà invece un ricchissimo contro-vertice, con più di 200 fra incontri e seminari sparsi a macchia di leopardo in oltre una dozzina di sedi in tutta la città. Cop26 Coalition People’s Summit ha l’obiettivo di «mettere al centro le voci dei più emarginati, coloro che sono colpiti più duramente dalla crisi climatica, e delle persone che resistono e si organizzano per un vero cambiamento».

In un misto di presenza fisica e digitale, saranno raccontate tra le altre le lotte dei popoli indigeni che si battono per riprendere il controllo delle loro terre native e delle antiche foreste della British Colombia, degli abitanti delle isole del Pacifico che resistono alle trivellazioni in alto mare, dei saharawi che denunciano il furto delle loro terre nel Sahara occidentale.

di Luca Manes

da il Manifesto del 31 ottobre 2021

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