[DallaRete] Farmageddon: storia catastrofica di un divorzio alimentare

farmageddon1-e1424953251352In collaborazione con BOOK PRIDE, la fiera dell’editoria indipendente, pubblichiamo un estratto da Farmageddon. Il vero prezzo della carne economica di Philip Lymbery (con Isabel Oakeshott), Nutrimenti, 2015.

Philip Limbery sarà ospite di Book Pride – Fiera nazionale dell’editoria indipendente per due appuntamenti: la tavola rotonda su Culture materiali: naturali resistenti e autentici omologati, che avrà luogo sabato 28 marzo ore 17 – 19.30, e la presentazione del suo Farmageddon, lo stesso sabato 28 dalle 16 alle 17.

Nel 1967 Peter Roberts, un produttore di latte dell’Hampshire, fondò l’organizzazione per cui lavoro adesso: Compassion in World Farming (Ciwf). Era autunno e la nuova organizzazione iniziava e finiva in famiglia; un uomo, sua moglie Anna e tre figlie piccole contro un’industria gestita dalla politica nazionale, sostenuta dal denaro dei contribuenti, guidata da consulenti agricoli e supportata da aziende chimiche, farmaceutiche e produttori di attrezzature. Le difficoltà da affrontare erano spaventose.

I semi del problema erano stati sparsi nel corso del secolo. Negli anni Quaranta il mondo era in guerra, spaccato in due dal più letale conflitto della storia umana, destinato a diventare uno spartiacque fondamentale, non solo per la politica globale, ma anche annunciando forse la maggiore rivoluzione nella storia recente dell’alimentazione e dell’agricoltura. Mentre le bombe scuotevano i campi di battaglia, venivano poste le fondamenta per l’industrializzazione delle campagne. I mezzi per produrre esplosivi dal nulla erano stati scoperti tre decenni prima da due scienziati tedeschi che, nel 1910, erano riusciti a convertire l’azoto atmosferico in ammoniaca, un ingrediente essenziale sia nei fertilizzanti artificiali che nel tritolo.

Durante la Seconda guerra mondiale, anche se non venne mai usato, gli scienziati tedeschi perfezionarono la produzione di massa degli agenti nervini dell’organofosfato come armi chimiche. Dopo la guerra, le aziende statunitensi adottarono questa tecnologia per uso agricolo. Nelle parole usate da Rachel Carson nel suo libro Primavera silenziosa, mentre «sviluppavano agenti per la guerra chimica, alcune sostanze prodotte in laboratorio risultarono letali per gli insetti […] largamente usati per testare le sostanze mortali per l’uomo». La scena era pronta perché armi di distruzione diventassero mezzi di produzione di massa nell’agricoltura.

La grande depressione degli anni Trenta, un tragico crollo economico che perdurò fino all’inizio della guerra, portò il Congresso degli Stati Uniti a votare il primo Farm Bill nel 1933, un pacchetto di leggi che prevedeva dei sussidi per l’agricoltura, ancora oggi la via principale utilizzata dal governo federale per intervenire nei metodi di produzione alimentare. Era stato introdotto per aiutare i contadini statunitensi in difficoltà per i prezzi sempre più bassi del raccolto dovuti alla rovina dei mercati. Comprendeva anche l’impegno da parte del governo a comprare il surplus di grano, togliendo il freno alla produzione in crescita.

Alcuni dei Paesi più ricchi del mondo hanno vissuto un periodo di ristrettezze alimentari durante gli anni della guerra, dal momento che le provviste dall’estero erano impedite dall’attività nemica, una dura lezione sui benefici dell’autosufficienza. Quando tornò la pace, molti Paesi si dedicarono a sostenere la produzione interna di cibo. Nel 1947 la Gran Bretagna approvò l’Agriculture Act, annunciando fondi e sostegni governativi per i nuovi metodi di produzione di massa grazie all’efficienza dell’intensificazione: ottenere di più dalla stessa terra usando gli ultimi prodotti chimici e farmaceutici e le macchine moderne. Negli Usa le fabbriche di munizioni della macchina da guerra americana furono convertite in fabbriche di fertilizzanti artificiali. I pesticidi derivanti dal gas nervino del tempo di guerra furono usati contro il nuovo nemico: gli insetti delle campagne. Le tecniche agricole selettive provocarono il decollo dei raccolti di mais, creando il mais economico, in grande quantità. Così tanto che il mais divenne una risorsa a basso costo per il mangime animale.

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Le nazioni industrializzate avevano i mezzi e la volontà per trasformare gli allevamenti in un processo di produzione di massa, cambiando per sempre il cibo e la campagna con conseguenze gravi anche se involontarie. La qualità venne sostituita dalla quantità come elemento principale. Gli allevatori furono incoraggiati a raggiungere gli standard minimi per il mercato alimentare, invece di tendere al prodotto migliore. Fu permesso l’uso di antibiotici per il bestiame, fornendo i mezzi per ridurre le malattie inevitabili quando si tengono troppi animali in uno spazio troppo piccolo. Le medicine spesso davano anche il beneficio di favorire i tassi di crescita, creando, insieme agli ormoni, degli animali più grassi da macellare prima.

In tutta la campagna l’antico collage di fattorie accostate tra loro, con la tipica varietà di raccolti e animali, divenne una cosa del passato, sostituita dalle monoculture – fattorie specializzate nella produzione di massa di una sola coltura o allevamento. Lavorare in armonia con la natura non era più necessario. Lo stesso raccolto poteva essere coltivato sullo stesso suolo senza soluzione di continuità. I fertilizzanti artificiali offrivano una soluzione rapida per i campi impoveriti, mentre le erbacce, gli insetti e altri parassiti indesiderati potevano essere eliminati con copiose spruzzate di agenti chimici. Gli animali da fattoria sono scomparsi dalla terra per finire in capannoni simili a fabbriche; i fertilizzanti artificiali hanno usurpato il loro ruolo di rinnovare con il loro letame il suolo impoverito dei campi e nei frutteti. Si parlava di un nuovo tipo di allevamento, di metodi da catena di montaggio applicati agli animali, di animali che vivevano le loro vite nel buio, immobili, senza mai vedere il sole. Nella sua innovativa denuncia del 1964, Animal Machines, Ruth Harrison descriveva una generazione di uomini che vedevano nell’animale che avevano allevato «solo il suo fattore di conversione in cibo per gli uomini». L’allevamento intensivo era ufficialmente nato.

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I governi successivi fecero in modo che il nuovo regime venisse adottato largamente, incapaci di vedere i costi nascosti e investendo risorse significative per diffondere il messaggio. Tutto venne sovraccaricato nella corsa alla produzione. Le aziende iniziarono a specializzarsi in varietà di animali che crescevano più rapidamente, come i polli che, in modo grottesco, diventano adulti sovrappeso in appena sei settimane dalla nascita – due volte la velocità delle generazioni precedenti. Un esercito di consulenti “esperti” di finanziamenti governativi invitava gli allevatori a prendere quel treno o affrontare la rovina. Ricordo Peter Roberts che mi raccontava del giorno in cui uno dei consulenti arrivò da lui. Erano i primi anni Sessanta e parlarono a lungo, ma il messaggio era semplice: se vuoi far crescere i tuoi affari devi entrare nell’allevamento intensivo di polli. Gli disse che questo significava specializzarsi in polli, in grande quantità, all’interno di capannoni industriali. Poteva comprare gli animali e il mangime da una grande azienda, e una volta cresciuti – non ci sarebbe voluto molto – rivenderli alla stessa azienda, che li avrebbe macellati e venduti sul mercato. Tutto sarebbe stato sterile, industriale, integrato. Tutto quello che doveva fare era firmare un contratto e allevare il “raccolto” di polli.

Sebbene avesse già qualche centinaio di polli, Roberts non era a suo agio. Sentiva che questo avrebbe annullato il suo potere di decidere, da allevatore, come fare le cose. Non gli sembrava giusto. Quella sera ne parlò con sua moglie Anna. La sua reazione fu immediata e istintiva: «Se vuoi farlo, Peter, non sarò io a fermarti, ma sappi che non sono d’accordo». A differenza di Roberts, molti altri cedettero alle chiacchiere sulle vendite.

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I soldi dei contribuenti furono usati per sostenere la nuova direzione dell’allevamento, un’eredità che ancora ci portiamo dietro. La politica agricola comune (Pac) dell’Unione Europea, tanto criticata, fu stabilita nel 1962 e ora si mangia quasi la metà del budget dell’Ue. Cinquanta miliardi di euro ogni anno vengono distribuiti in pagamenti per gli allevatori conformi alla normativa. Allo stesso modo il Farm Bill statunitense distribuisce circa trenta miliardi di dollari sotto forma di sussidi agli allevatori, tre quarti dei quali vanno appena a un decimo degli allevamenti – in genere i più ricchi e grandi. Il mais continua a essere il raccolto più finanziato, suffragando una cultura della carne a basso prezzo basata sui prodotti di animali allevati intensivamente e nutriti con cereali e soia invece che con l’erba e il foraggio dei campi.

Guardando indietro, ciò che non era così chiaro era la routine in cui si stavano imbarcando gli allevatori: produrre sempre di più con sempre meno, spesso per compensi minori. Inevitabilmente la produzione di massa ha portato a una riduzione dei prezzi che contadini e allevatori guadagnavano per il loro lavoro, e molti di loro impararono a proprie spese che il seducente e innovativo sistema non era all’altezza delle aspettative. E semplicemente fallirono.

Allevamento e coltivazione un tempo erano un binomio felice. L’industrializzazione li ha separati, e si è assistito alla nascita dei “baroni del grano” che coltivavano cereali in grandi monoculture. Le dimensioni dei campi sono cresciute e le siepi scomparse. Le proteste della Natura di fronte alla morte della diversità – insetti o erbacce tenuti prima sotto controllo con mezzi naturali – vennero fissate da Rachel Carson nel suo libro di denuncia. Oggi non esiste praticamente un solo angolo al mondo che non sia in qualche misura toccato dall’espansione dell’agricoltura intensiva.

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Negli ultimi decenni le cose sono cambiate, a volte per il meglio. Per esempio tenere i vitelli in bare premature – gli stretti recinti individuali – per tutta la loro vita è vietato in tutta la Ue; il Ddt, pesticida altamente tossico e dannoso, è stato messo al bando per uso agricolo in tutto il mondo.

Ma dopo cinquant’anni dal primo grido di allarme di Carson e Roberts i metodi di produzione di cibo sono di nuovo a un bivio, ben esemplificato dalla proposta di un immenso allevamento di vacche da latte in stile Usa nella campagna inglese del Lincolnshire. L’idea era di togliere ottomila mucche dai campi e rinchiuderle per sempre. Ecco la nuova frontiera nella battaglia per la campagna inglese, una battaglia che ha unito abitanti del posto, esperti di cucina, cuochi famosi, e interessi ambientalisti e civili in un’opposizione compatta. Alla fine la proposta è stata abbandonata, ma lo spettro di una nuova onda di intensificazione ormai aleggia: gli allevamenti immensi in stile Usa, su larghissima scala e superintensiva, si stanno accampando sui prati europei? Quanto si sono già diffusi? E quali sono stati gli effetti negli stessi Stati Uniti?

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Ho l’onore di essere il direttore generale di Compassion in World Farming, l’associazione fondata da Peter Roberts, attualmente l’organizzazione per il benessere degli animali da allevamento più importante al mondo, con uffici e sedi in Europa, Usa, Cina e Sudafrica. Nel 2011 sono stato invitato dalla presidentessa dell’associazione, Valerie James, a scoprire perché un’industria che era nata con intenzioni tanto buone – sfamare il mondo intero – avesse fatto tanti errori, troppo spesso mettendo i profitti davanti alla missione. Che conseguenze subivano le persone, gli animali e il pianeta, e cosa si poteva fare? L’idea per questo libro era nata.

Mi preparai a scavare nell’attuale sistema alimentare. Assunsi il ruolo del giornalista d’inchiesta, seguendo indizi e informazioni, mettendo a nudo la produzione intensiva di cibo, sempre nell’esercizio delle mie funzioni e talvolta usando il mio biglietto da visita per tirarmi fuori da situazioni difficili.

Per due anni ho viaggiato con la responsabile per la politica del «Sunday Times», Isabel Oakeshott, e una troupe televisiva per esplorare la complessa rete di coltivazione, allevamento, produzione intensiva e commercio internazionale che influenza il cibo che finisce nei nostri piatti. Ho usato i miei contatti in giro per il mondo per stabilire dove andare e con chi parlare. Abbiamo stilato una lista di nazioni e posti da vedere, sulla base del loro coinvolgimento nel mondo globalizzato del cibo. La California era una scelta ovvia, per quelli che sembrano essere dei metodi futuristici di allevamento. La Cina è una potenza in espansione e il Paese più popoloso sul pianeta per quanto riguarda persone e maiali. L’Argentina è il più grande esportatore al mondo di soia per mangime animale. Volevo vedere con i miei occhi come le persone che, spesso in terre lontane, ci procurano il foraggio, gli alimenti, o il cibo stesso che mangiamo, sono influenzate dall’industrializzazione fuori controllo delle campagne. Volevo parlare di persona con chi è coinvolto e con chi subisce le conseguenze. Questa è la loro storia, non solo la mia.

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