[DallaRete] Viaggio a Corvetto, un’inchiesta su case popolari e occupazioni
Emergenza abitativa – Gli sgomberi e gli scontri di questi giorni fanno tornare di attualità il tema della casa: gli annunci di Roberto Maroni, i ritardi e i guai finanziari dell’agenzia regionale, gli occupanti disperati e quelli gestiti dal racket, la necessità di soluzioni condivise e urgenti
Sul muro scalcinato di un palazzo c’è una scritta nera, fatta con lo spray: “Via Comacchio 4”. La targa con la via e il numero civico non c’è e manca anche il citofono. C’è solo un portone di ferro, da cui entrano ed escono ogni giorno una trentina di famiglie di origine peruviana. Il palazzo se lo sono preso poco a poco, fino a occuparlo tutto, dal primo all’ultimo piano. Qui, in zona Corvetto, periferia Sud di Milano ma vicinissima al Duomo (solo 6 chilometri), il 40% delle case popolari è in mano agli abusivi. Molti di loro si sono sentiti chiamati in causa quando il Presidente della Lombardia, Roberto Maroni, ha annunciato un piano da 200 sgomberi a settimana. Le cifre sono state smentite: l’Assessore alle politiche sulla casa della Regione, Paola Bulbarelli, ha fatto un involontario mea culpa dicendo che era “un annuncio spot”.
Ma gli abusivi e i centri sociali, che difendono il diritto alla casa e intervengono spesso per bloccare gli sfratti, lo hanno preso sul serio e si sono mobilitati. Quattro giorni dopo l’annuncio, l’11 Novembre, una ventina di ragazzi e ragazze a viso coperto hanno fatto irruzione nella piccola sede del Pd di via Mompiani durante una riunione fra funzionari dell’Aler, l’azienda che gestisce l’edilizia residenziale della Lombardia, alcuni inquilini del palazzo – tutti anziani – e i sindacalisti del Sunia. In pochi minuti hanno devastato due stanze, imbrattato le pareti e tirato fumogeni. Quando le forze dell’ordine sono intervenute, hanno trovato uno striscione con su scritto: “Bloccare gli sgomberi, bloccare la Tav”.
L’assalto non è rimasto senza conseguenze: le forze dell’ordine hanno sgomberato i centri sociali “Corvaccio” e “Rosa Nera”. I militanti hanno fatto resistenza, sbarrando via Ravenna con i bidoni della spazzatura e lanciando rifiuti e bottiglie contro polizia, carabinieri e finanza, ma sono stati respinti con i lacrimogeni e cariche di alleggerimento.
Da qualche tempo, nei quartieri popolari di Milano come Corvetto, Lorenteggio, Giambellino e San Siro, non c’è sgombero che non sia accompagnato da scontri. In genere sono i centri sociali che aiutano le famiglie sotto sfratto: il Giambellino è presidiato dalla “Base di solidarietà popolare”, il Corvetto dai militanti del “Corvaccio”, il quartiere Ticinese dallo spazio sociale “Cuore in Gola” e il quartiere San Siro dal comitato “San Siro-Asia”. Ogni volta che la forza pubblica arriva davanti agli alloggi occupati trova davanti a sé un muro. In via Ravenna, è successo il contrario: gli occupanti sono scesi in strada accanto agli attivisti. E appena la situazione è tornata tranquilla, una parte di loro si è radunata davanti alle telecamere, mai così presenti nel quartiere. C’erano soprattutto donne molto giovani, accompagnate dai figli piccoli, e immigrati a raccontare la loro storia, simile – in molti casi – a quelle di tutti gli altri.
“Sono sette anni che aspetto una casa”, racconta Francesca. “Ho dovuto dormire in macchina, con i figli piccoli, e nessuno mi ha dato una mano. L’Aler le case ce le ha, ma le tiene sfitte. Ci costringono a occupare, ma noi siamo gente per bene, madri di famiglia, vogliamo solo avere un tetto e siamo disposti a pagarlo”. Manuel, un ragazzo argentino, apre una cartellina gialla e tira fuori un referto medico: “Sono invalido, e aspetto una casa da anni. Sono andato dall’Aler e mi hanno detto che dovevo arrangiarmi. E così ho occupato”. Nella maggior parte dei casi, gli appartamenti sfitti sono protetti solo da lastre di lamiera, perché l’Aler, racconta una fonte, non ha nemmeno i soldi per mettere delle porte normali. Per entrare basta un piede di porco: qualcuno lo fa da solo o con l’aiuto dei centri sociali, qualcun altro si affida a chi gestisce il mercato nero delle occupazioni. Valentina è una di queste: “Io occupo da 1 anno e mezzo e ho pagato 200 euro per entrare in casa. Ho parlato con un abitante del quartiere, che si è mosso per me. Non so chi abbia preso i miei soldi. So solo che queste persone mi hanno dato quello che mi spetta: una casa per me e per i miei figli”.
Il racket, secondo diverse fonti, è gestito da italiani, immigrati di origine meridionale che tra gli anni Sessanta e Settanta hanno occupato le prime case nei quartieri popolari di Milano e da altri immigrati di origine marocchina. Sono invisibili, ma la loro presenza si fa sentire. “Si sa quello che ti fanno se parli o ti ribelli”, dice Giovanni, un ragazzo sulla trentina, guardandosi intorno. “Prima ti minacciano, poi ti danno fuoco alla macchina”. Giovanni non è l’unico ad avere paura: i custodi dei palazzi, gli inquilini, parlano solo dopo averti invitato a casa e aver chiuso la porta. “Qui, dice uno di loro, è come al Sud”. Il racket delle occupazioni ha contribuito ad aumentare il numero di abusivi, ma non è l’unica causa.
Grandi responsabilità le ha anche l’Aler, l’azienda regionale che – come accennato – gestisce gli alloggi popolari in tutta la Lombardia e che a Milano ha un patrimonio complessivo di circa 87 mila case: 58 mila sono di sua proprietà, le altre appartengono al Comune, che dal prossimo dicembre le gestirà in autonomia.
Il buco di bilancio
La società ha chiuso il 2013 con un buco di bilancio da 80 milioni di euro e 96 milioni di debito con i fornitori: uno dei risultati di questo dissesto finanziario è ben visibile proprio nel quartiere Corvetto, dove a 100 metri dal palazzo occupato di via Comacchio ce n’è un altro, nuovo e ristrutturato, ma tenuto sfitto da due anni perché i lavori negli spazi esterni, come i cortili, non sono stati completati per mancanza di fondi. Uno spreco che accomuna diversi quartieri popolari di Milano, dove ci sono 4mila case nuove ma vuote (secondo Massimo Pasquini, presidente dell’Unione Inquilini, sono addirittura 8mila). Questo è uno degli argomenti con cui gli abusivi giustificano le occupazioni: “Perché costringerci a occupare, quando potremmo pagare un affitto regolare in uno degli alloggi sfitti”?. L’altro riguarda i tempi (biblici) per ottenere un alloggio: in lista d’attesa, al momento, ci sono 23mila persone, che avrebbero diritto a una casa popolare. Ma la consegna avviene a rilento: fonti del Comune parlano di un calo “drammatico” delle assegnazioni che, come si vede dal grafico, negli ultimi due anni sono state poco più di 1.000 l’anno (quest’anno sono 800, ma il dato non comprende gli alloggi assegnati dal Comune).
“Di questo passo, l’ultimo in graduatoria avrà una casa fra quindici anni: e noi, nel frattempo, dove andiamo? dicono in coro gli abusivi. Distinguere tra furbi e persone indigenti non è facile. Quel che è certo è che i casi di “sopraggiunta povertà”, negli anni, sono aumentati. Oggi il 60% degli inquilini delle case popolari è in debito con Aler e il 30% non paga più l’affitto.
I problemi finanziari dell’azienda sono dovuti anche a questo e si ripercuotono sugli stessi inquilini, che vivono in case fatiscenti, o su chi aspetta da anni un alloggio, sapendo che ce ne sono migliaia sfitti per mancanza di soldi. Un piano per provare risolvere il problema è stato presentato in Prefettura a Milano e prevede lo stanziamento di 25 milioni e 500 mila euro per il recupero degli alloggi sfitti e per proteggere le case appena sgomberate, oltre a diverse misure che Aler e Comune dovranno rispettare per accelerare l’assegnazione delle case e prevenire altre occupazioni.
Il Prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca ha detto che il piano “coniuga legalità e solidarietà”, escludendo sgomberi di massa. Ma la notizia non sembra essere arrivata dove avrebbe dovuto: in serata ci sono stati altri scontri fra antagonisti e agenti a Porta Genova, in zona Navigli. E poche ore dopo, un incendio (molto probabilmente doloso) ha distrutto un ufficio dell’Aler. “Si stancheranno prima loro – aveva detto una ragazza, dopo gli incidenti in via Ravenna – perché noi dalle nostre case non ce ne andremo mai”.
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