Diaz, il film. L’opinione di Giacomo Russo Spena – Micromega (2)
A volte le polemiche possono servire ad alimentare un dibattito pubblico, altre appaiono senza senso. Temo che la crociata di Vittorio Agnoletto – uno dei portavoce di quel movimento noglobal che “invase” in decina di migliaia la città di Genova (19-21 luglio 2001) per dire NO al G8 – contro il film Diaz sia ascrivibile al secondo caso. Prima una lettera sul manifesto, poi una stizzita replica al produttore Domenico Procacci, Fandango, sul Fatto Quotidiano: le sue parole – non essendo uno qualsiasi ma avendo svolto un ruolo da protagonista in quelle giornate genovesi (cilene) – pesano come macigni e fanno il giro della Rete. “Ci troviamo – scrive Agnoletto – di fronte a un film commerciale, costruito con astuzia, che riesce a essere molto attento e rispettoso delle compatibilità politiche e degli attuali rapporti di forza negli apparati, senza pestare i piedi a nessuno, e nello stesso tempo capace di presentarsi come paladino dei diritti e solidale con le vittime”.
Mentre sul quotidiano comunista pone una serie di interrogativi http://www.vittorioagnoletto.it/2012/04/…). Alcune domande colpiscono nel segno, altre no. Ad esempio i nomi finti nel film sono solo uno strumento di difesa legale in caso di querele e diffide, tra l’altro chi conosce minimamente i fatti riconosce perfettamente i vari “attori”. Ma l’accusa più grave di Agnoletto è quella di aver fatto una pellicola “Pd” nel senso che la sceneggiatura dà un colpo alla botte ed una al cerchio, denuncia la mattanza delle forze dell’ordine senza sposare in pieno le ragioni dei manifestanti. Non solo, ritiene che le atrocità della polizia siano raffigurate come il frutto di “mele marce” e le violenze non siano comandate dall’alto, dai vertici. Su queste affermazioni l’ex noglobal lascia perplessi, sembra che più che Diaz, abbia visto il film Acab di Stefano Sollima (quello sì di impronta molto “veltroniana” e buonista).
E qui arriviamo al punto per cui ritengo incomprensibile la crociata di Agnoletto: la pellicola si poteva fare meglio, come tutto è migliorabile, ha dei limiti cinematografici e politici (forse) ma come si fa a non capire l’importanza di Diaz? L’impatto che può avere sull’opinione pubblica. Abbiamo dovuto aspettare undici anni affinchè il cinema denunciasse la mattanza cilena di Diaz e Bolzaneto, quella barbarie che qualcuno vorrebbe insabbiare e che invece va urlata per reclamare quella giustizia che purtroppo non si avrà mai nelle aule dei tribunali per la prescrizione dei reati di cui sono accusati i poliziotti, i quali in questi anni hanno fatto carriera. Altro che sospensione dai loro incarichi.
Un film che Agnoletto avrebbe voluto più partigiano (in una visione ideologizzata dello stesso linguaggio cinematografico, alla fine lo stesso Vicari ha sottolineato essere un “film” il suo) e schierato politicamente. Senza capire che così com’è avrà più impatto e seguito: Diaz mette in scena gli atti processuali, carte indiscutibili, senza prestare il fianco a strumentalizzazioni di parte. Mette in scena fatti. E l’oggettività è molto più forte di qualsiasi commento nel caso di Genova 2001. Agnoletto inoltre critica il regista per aver decontestualizzato il film, il non aver descritto le giornate precedenti, le manganellate sui pacifisti, le 300mila persone in piazza o l’assassinio di Carlo Giuliani. Meglio, non lascia appiglio o alcuna giustificazione alla violenza cieca della celere, alla finte molotov o armi, ai tagli sulle divise. Non c’è posto per alcuna frase (come invece avviene in Acab) sulla rabbia dei poliziotti bramosi di vendicarsi per un torto subito nei giorni precedenti. Vicari qui sì è partigiano e non dà adito ad alibi. La ragione sta da una sola parte, quello successo alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto – ovvero la sospensione della democrazia – non è mai giustificabile. MAI.
Un pugno nello stomaco per il pubblico che a volte – di fronte a tale violenza – pensa, sconvolto, di abbandonare la sala. E’ un film crudo. Di un’immensa denuncia. Le mandibole spaccate, le ossa rotta, le scie di sangue sui muri del “manufatto” o le persone umiliate, schernite e torturate all’interno della caserma di Bolzaneto. In Diaz c’è tutto. Come sono coinvolti i vertici di comando (che provengono da Roma) e l’unico poliziotto “buono” risulta essere Michelangelo Fournier, colui che denunciò quella “macelleria messicana”. Come non essere allora d’accordo con Marco Rigamo che su globalproject (http://www.globalproject.info/it/produzioni/Diaz-Protagonista-e-lo-Stato/11276) scrive a proposito del film: “Le prime immagini scorrono all’indietro, come la memoria di chi ha attraversato quelle quattro giornate di fine luglio 2001. Sono i cocci in vetro di qualcosa che si è appena infranto sul marciapiede. Si ricompongono nella forma di una bottiglia di birra che rotea sopra una volante della polizia e termina tra le mani di un ragazzo. Vuota, innocua. Come vuoto e innocuo era quell’estintore impugnato il giorno precedente da Carlo Giuliani, ragazzo in canottiera, prima che una pallottola calibro 9 Parabellum lo centrasse in mezzo alla fronte da breve distanza”. Parole che valgono per tutti coloro che hanno vissuto sulla propria pelle quella Genova e respirato l’odore acre dei lacrimogeni Cs. Per tutti quelli che da anni si battono per far emergere la verità sul G8 2001 e che si pongono il problema di uno Stato repressivo, intollerante dei movimenti e conflitti sociali.
Allora contestualizziamo il film, caro Agnoletto: come non capire che in questa fase politica (nei tempi della Val Susa e della criminalizzazione del dissenso) sia fondamentale? Diaz, con tutti i suoi limiti, va difeso e soprattutto promosso il più possibile. Fatto vedere nelle scuole ai ragazzi che ignorano i fatti di Genova 2001. Come tra l’altro Bella Ciao di Carlo Freccero, una pellicola uscita poco dopo il G8 e censurata per l’enorme denuncia delle violenze di piazza di quei giorni. Bella Ciao e Diaz sono complementari, due istantanee che danno una percezione reale e completa di quegli atroci momenti. Per non dimenticare, “non pulite quel sangue”.
Giacomo Russo Spena
(15-04-2012)
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