Gaetano Amoroso. Noi lo ricordiamo sempre
A 44 anni dall’omicidio fascista del compagno Gaetano Amoroso, ci troviamo a ricordarlo senza poter deporre una corona nel luogo dove è stato assassinato. In questi giorni, fino alla data in cui di solito lo salutavamo, pubblicheremo dei racconti e delle immagini, qualunque contributo sarà gradito.
Gaetano Amoroso, insieme ad altri compagni del Comitato rivoluzionario antifascista di porta Venezia, fu aggredito e accoltellato la sera del 27 aprile 1976, in via Uberti, da un gruppo di fascisti.
Aveva 21 anni, lavorava all’Acfa come disegnatore di fibbie e, studente-lavoratore, di sera frequentava l’ultimo anno del corso serale presso la Scuola artistica del Castello che oggi porta il suo nome.
Era entrato giovanissimo a far parte della lega degli artisti del Vento rosso, organismo di massa del Partito comunista marxista-leninista, nella quale aveva trovato il modo di esprimere le sue esigenze politiche e artistiche, dipingendo murales.
Nella fabbrica, in cui lavorava col padre, si era impegnato con altri operai in una autogestione di mesi contro la chiusura della stessa; nel quartiere si batteva contro le speculazioni edilizie, partecipando all’occupazione della casa di piazza Risorgimento.
La presenza fascista all’interno del quartiere in cui viveva e una forte spinta antifascista dopo l’uccisione di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi lo spinsero a creare ed organizzare, insieme ad altri compagni, il Comitato antifascista di porta Venezia.
Fu a causa del suo impegno democratico e antifascista che, la sera del 27 aprile venne aggredito da un gruppo di noti squadristi (Cavallini, Folli, Cagnani, Pietropaolo, Terenghi, Croce, Frascini, Forcati), tutti provenienti alla sede del Msi di via Guerrini.
Gli otto assassini fascisti furono arrestati poche ore dopo il fatto: l’accusa iniziale di aggressione fu trasformata, quando il 30 aprile Gaetano morì per le ferite subite, in quella di omicidio premeditato e tentato omicidio pluriaggravato, quest’ultima per il ferimento di due compagni di Amoroso.
Milano, 29 aprile 1976 – Il quotidiano dei lavoratori
“‘Ammazziamolo come un cane!’ Hanno gridato i fascisti”.
(…) Esco dalla redazione col cuore gonfio; mi metto su un tram per raggiungere l’ospedale dove sono ricoverati in gravi condizioni due dei tre compagni, Luigi Spera e Carlo Palma, per cercare di vederli, di confortarli, riportando le parole e la presenza solidale che riempie le strade, di offrire la mia presenza fisica; le uniche e poche cose che in questo momento posso fare per loro.
All’ospedale sono subito bloccato da una serie di uscieri, infermieri, dottori, che vogliono mantenere l’isolamento intorno ai compagni, non vogliono “speculazioni politiche” sul fatto (…). Commosso mi avvicino a Luigi Spera, che con gli occhi aperti sembra essersi leggermente ripreso. Carlo Palma giace su di un lettino a fianco, immobile, stremato dopo l’operazione subita. A Luigi con un filo di voce, per non esser udito dagli altri, dico che sono del Quotidiano dei lavoratori, che vengo a trovarlo in nome dei compagni che non possono venire, che tutta Milano è in piazza per loro e che stasera, alle 18, ci sarà una grande manifestazione.
Mi guarda, sorride, e mi dice: “Vorrei esserci anch’io”. Mi siedo vicino a lui e gli chiedo di raccontarmi come si è svolta l’aggressione degli assassini fascisti. “Ieri sera, come tante altre sere, siamo andati a una riunione del Comitato Antifascista di zona. Siamo arrivati alla sede, in via Arconati alle 21,15 c’erano tutti, tutti i compagni del quartiere, molti studenti, altri come me, giovani lavoratori. La riunione era centrata sul problema dell’entrata di un nuovo compagno nel Comitato; era Carlo, che adesso è lì, sul lettino, in condizioni più gravi delle mie. Dopo la riunione, che aveva deciso la sua entrata nel Comitato, abbiamo messo in ordine la sede, buttato via un’asta di legno, perché non volevamo nessun oggetto che potesse essere ritenuto ‘un’arma’ in un’eventuale perquisizione della polizia.
Siamo quindi andati in strada per accompagnare a casa Vanni, che abita in via Pisacane, vicino al bar conosciuto nel quartiere per essere frequentato dai fasci; volevamo in questo modo impedire qualsiasi eventuale provocazione lungo la strada. Valutavamo l’intervento fatto la sera prima coi compagni del Mls, attaccando manifesti antifascisti in piazza Grandi e le conseguenze nel quartiere di una provocazione di ieri pomeriggio che un gruppo di fascisti aveva preparato nei nostri confronti. Avevamo così raggiunto viale dei Mille, dove un gruppo di persone ingombrava la strada, e insospettito ho chiesto ai compagni. ‘E quelli chi sono?’ ‘Niente, non sono fasci!’ Invece erano fasci, fasci di altre zone o altre città perché noi non li avevamo mai visti circolare nel quartiere. Sulla strada, a fianco a loro, erano ferme alcune macchine con i fari e il motore accesi.
Appena li abbiamo affiancati ci sono saltati subito addosso, una squadra di undici, dodici persone, noi eravamo in cinque più una ragazza. Quando mi hanno tirato il primo colpo di coltello uno gridava: ‘Ammazziamolo come un cane bastardo!’ io l’ho visto in faccia: aveva i baffetti sottili, non molto alto, con i capelli corti, come del resto tutti gli altri. I coltelli erano affilati, si vedeva che tutti li sapevano usare bene, veri e propri maniaci delle armi. Due compagni e la ragazza sono riusciti a scappare mentre noi tentavamo di difenderci; ho visto subito Carlo cadere con la pancia squarciata e le viscere fuori; e questo mi ha dato la forza di divincolarmi. Mi sono trovato con una ferita sopra il cuore – adesso ho saputo che mi ha bucato un polmone – , ferite sulle braccia, nella pancia, sul torace. Nonostante questo sono riuscito a scappare, ma mi hanno inseguito. Sono riusciti a raggiungermi.
Mi hanno colpito alla testa con una spranga, quindi, quando ero a terra, mi hanno di nuovo accoltellato. Quando ho raggiunto un semaforo in cerca d’aiuto nessuna macchina si è fermata; sono riuscito ad arrivare al nostro bar di zona perdendo sangue e tamponandomi le ferite con le mani; avevo paura che mi inseguissero. Qui sono svenuto nelle mani di un compagno di Lotta Continua, al quale ho gridato “siamo stati aggrediti dai fascisti, hanno ucciso gli altri”.
Milano, 30 aprile 1976 – L’Unità
Cercavano qualche “rosso per dargli una lezione”.
Hanno visto quattro giovani e una ragazza che non conoscevano ma che avevano tutta l’aria di essere “rossi”; hanno bloccato i tre che non sono riusciti a scappare, li hanno storditi a pugni e calci, poi li hanno colpiti a turno con un solo coltello, nell’agghiacciante rituale di un crimine di gruppo.
Solo per caso non c’è stato un altro delitto come quello di cui fu vittima Brasili, lo studente lavoratore assassinato nel pieno centro di Milano perché “sembrava un cinese”.
Così il sostituto procuratore Luigi De Liguori, il dirigente l’ufficio politico e della Questura Meterangelis, e i funzionari Rea e Puttomatti hanno ricostruito nelle sue barbariche premesse e nelle sue feroci sequenze l’accoltellamento di tre giovani antifascisti, avvenuto martedì sera a Città Studi.
Una ricostruzione sostanzialmente ammessa dai nove missini arrestati: Gian Luca Folli, di 18 anni; Marco Meroni, di 19 anni; Angelo Croce, di 20 anni; Luigi Fraschini, di 23 anni; Antonio Pietropaolo; Danilo Terenghi; Walter Cagnani; Claudio Forcati tutti di 20 anni, Gilberto Cavallini, di 24 anni. L’accusa è di tentato omicidio pluriaggravate e di detenzione di arma.
In carcere è finito un altro fascista, il più noto del gruppo, Ugo Bersani detto “Balilla”, 37 anni, è accusato di reticenza.
Il primo anello della catena a saltare è stato Gilberto Cavallini. Il commissario capo Rea ha interrogato in ospedale uno dei feriti, Luigi Spera (gli altri due sono Carlo Palma e Gaetano Amoroso, quest’ultimo ancora in gravi condizioni). Dalla descrizione di uno degli aggressori ha capito che si trattava, con ogni probabilità, del Cavallini, uno dei “duri” del fascismo milanese che conosceva. Gilberto Cavallini, ha detto uno degli inquirenti, “crede di essere qualcuno nel Msi milanese”. O almeno, vuol diventarlo, e non indietreggia davanti a niente, neppure di fronte alla violenza più gratuita e odiosa. Pere esempio quando nel settembre 1974 ridusse in fin di vita con una rivoltellata in pieno petto un garagista che, essendo trascorso l’orario di chiusura, si era rifiutato di fare il pieno di benzina alla sua moto.
Cavallini, mentre è in corso il suo interrogatorio alla presenza di De Liguori, Meterangelis e Rea, strappa il primo foglio del verbale dalle mani dell’agente che dattilografa, assume un atteggiamento strafottente e rifiuta di parlare, dopo aver detto che è un simpatizzante del Msi.
La polizia sa però qual è il suo “giro”. Da lui risale al Croce, cominciano a venir fuori le prime ammissioni; in poche ore tutto il gruppo è nelle mani degli inquirenti. Ultimo ad essere arrestato è Claudio Forcati, bloccato questa mattina.
I nove fascisti danno versioni differenti in alcuni particolari ma identiche nella sostanza. Martedì sera, nella sezione di via Guerrini, sono presenti una quindicina di giovani attivisti. Vengono lanciati sassi contro la porta della sezione (c’è stato anche un lancio di bottiglie incendiarie che sembra, però, sia avvenuto quando ormai la sede era deserta). Qualcuno, si pensa sia il Cavallini, che appare il capo del gruppo, lancia la proposta: “Andiamo a fare un giro e diamo una lezione ai rossi”. Solo nove dei presenti accettano di far parte della squadraccia che parte su due auto per la spedizione punitiva.
Vedono quattro giovani e una ragazza “vestiti da rossi”. Bloccano le macchine, si dividono in due gruppi per prendere i cinque in mezzo. La ragazza e un altro giovane si accorgono del pericolo e fuggono. Luigi Spera, Gaetano Amoroso e Carlo Palma restano in trappola all’angolo di via Uberti con via Goldoni. Il commando nero li carica di botte al grido di “Sporchi comunisti”; i tre giovani finiscono a terra storditi. Uno dei fascisti estrae un coltello e dà un primo colpo ad uno dei tre, poi il coltello passa di mano in mano, ogni mano un colpo sui tre che sanguinano sul marciapiede in un mostruoso crescendo di ferocia. Poi il commando risale sulle due macchine, fugge nella notte. La “lezione al rosso” è stata data, la vendetta è compiuta, si può tornare, proprio come i vecchi squadristi del ’21, fra i camerati col petto in fuori, magari a raccontare l’impresa domani alla ragazza in un bar di San Babila. “Sono nauseato per quello che ho sentito” ha detto uno degli inquirenti. Ugo Bersani, candidato del Msi alle ultime elezioni comunali a Milano, ha lo stomaco molto più forte. Sapeva della spedizione e non ha parlato: per questo è finito in galera insieme ai suoi camerati per reticenza. Per lui si è trattato di un “lavoro ben fatto”.
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