Una larga intesa per un welfare minimo

3494b96e21ee14c4ae43819d342f2a329a113dce213620aea1266f73“La misura introdotta con la Legge di Stabilità non è semplicemente scarsa o inadeguata alle condizioni di nuova povertà che vanno esplodendo nella società. Ancora più a fondo, questa stessa concezione di contrasto alla povertà si inscrive in una tendenza di ristrutturazione del welfare in chiave categoriale, cominciata nel lungo ciclo neoliberale e accelerata nella crisi, come riflesso della disciplina di bilancio”

Le principali testate giornalistiche italiane, con poche eccezioni, in questi ultimi giorni hanno annunciato il via alla sperimentazione di un “reddito minimo” in Italia. L’antefatto è noto. Mercoledì 27, il Senato ha approvato (con il vincolo della fiducia) il maxi-emendamento alla Legge di Stabilità per il prossimo triennio, introducendo una misura di sostegno al reddito per i poveri, con caratteristiche fortemente residuali. Così, mentre il welfare tendenzialmente viene disegnato come un istituto di filantropia pubblica, il filtro della comunicazione rilegge quest’ultima operazione attribuendo i termini di modernità, civiltà riformista, persino inversione di tendenza della politica sociale.

E’ stato già osservato in alcune note critiche, che l’intervento del governo non corrisponde neppure ad un “reddito minimo”, così come si è diffuso in alcuni paesi europei principalmente negli anni novanta, ma a qualcosa di ancora più residuale, con caratteristiche ancora più caritatevoli. Proviamo a capire qual è l’ipotesi di riforma che il governo delle larghe intese sta provando a realizzare.

Si tratta di una sperimentazione che verrà realizzata esclusivamente nelle 12 aree metropolitane. Il disegno della misura si ispira ai risultati raggiunti da un gruppo di esperti istituito presso il Ministero del Lavoro e poggia sostanzialmente su due pilastri: uno riguarda l’erogazione monetaria diretta; il secondo, la condizionalità di tale erogazione all’accettazione del lavoro. La parte monetaria “diretta” caratterizza il dispositivo nella sua dimensione estremamente caritatevole. In sostanza la proposta contenuta nel maxi-emendamento va a rifinanziare lo strumento della carta acquisti – introdotta nel 2008 da Tremonti – allocando 120 milioni di euro aggiuntivi per tre anni. Si tratta di una “carta di debito” che consente di effettuare acquisti in beni di prima necessità. Le famiglie povere residenti nelle aree di sperimentazione (la misura è estesa ai residenti, senza vincolo di cittadinanza) possono farne richiesta accettando una verifica dei mezzi, mediante il meccanismo dell’Isee. E’ di fatto un sostegno residuale alle famiglie in condizioni di indigenza, facendo leva su quel carattere familistico che contraddistingue la struttura di welfare delle aree meridionali d’Europa. Si prevede un’erogazione di 400 euro, che costituirebbero secondo questo schema una sorta di “minimo vitale” per la riproduzione fisica del corpo; facendo leva su una concezione di riproduzione che non contempla neppure la più elementare dimensione delle relazioni sociali, ma fissa esclusivamente un limite per la ricostituzione biologica dei corpi. In sostanza, si può dedurre che nella migliore delle ipotesi ogni anno l’intervento potrebbe riguardare al massimo 100 mila famiglie al di sotto della soglia di povertà assoluta. La carità diventa ancora più insopportabile se si considera che nel 2012 l’Istat individuava ben un milione settecentomila famiglie circa, al di sotto di tale soglia di reddito (così l’intervento riguarderebbe appena il 6% delle famiglie assolutamente povere!).

Il secondo aspetto è persino paradossale e unisce alla filantropia di stato la disciplina tipica del workfare: i singoli componenti della famiglia sono tenuti a dichiarare la loro disponibilità a lavorare e saranno accompagnati con percorsi di reinserimento nel mercato del lavoro. E’ il solito welfare neoliberale che dichiara guerra al labour shirking, gli scansa fatiche che vivono all’ombra della collettività. Ma in questo caso l’ideologia del controllo sociale assume un rilievo patetico: l’idea è che i componenti di una famiglia con 400 euro al mese, se non costretti a lavorare, passerebbero il loro tempo a raccogliere farfalle e magari a godersi la vita al sole.

La misura sembrerebbe che verrà finanziata attraverso un contributo di solidarietà delle cosiddette “pensioni d’oro”, a partire da importi superiori a 90 mila euro annui. Quando la redistribuzione declina in “equità”, una delle mitologie alle origini della Terza-via social-liberista, viene chiesto ai più ricchi di pagare l’elemosina ai più poveri nella scala di distribuzione del reddito. E’ in sostanza un’ipotesi redistributiva, che muovendosi sul terreno delle teorie della giustizia di Rawls, ha lo scopo di non mutare gli assetti di potere nella società riproducendo indeterminatamente la stessa struttura di dominio.

La misura introdotta con la Legge di Stabilità non è semplicemente scarsa o inadeguata alle condizioni di nuova povertà che vanno esplodendo nella società. Ancora più a fondo, questa stessa concezione di contrasto alla povertà si inscrive in una tendenza di ristrutturazione del welfare in chiave categoriale, cominciata nel lungo ciclo neoliberale e accelerata nella crisi, come riflesso della disciplina di bilancio. Così, si sbaglia chi ritiene che siamo dinanzi alla generica ritirata dello Stato dall’economia o dal welfare, come ancora una parte della sinistra seguita a sostenere. L’ipotesi di un welfare residuale esclusivamente rivolto ai poveri, presuppone al contrario un ruolo attivo dello Stato, a cui è attribuita implicitamente la funzione di governare le forme di insicurezza sociale. Quella insicurezza che costituisce un presupposto fondamentale affinché, come direbbero gli economisti neoclassici, il salario non presenti “vischiosità” verso il basso e sia libero di fluttuare verso la miseria. Programmare l’insicurezza significa agire sulla forma delle relazioni sociali, significa amplificare i dispositivi di comando sulla forza-lavoro.

La critica radicale a questo disegno, presuppone la necessità di reinventare con le lotte una nuova universalità del welfare, questa volta di un segno diverso dal passato. Non è concepibile una forma universale del welfare slegata da istituti di democrazia diffusa; così come, non è un caso che l’affermazione di un welfare residuale proceda progressivamente con la riduzione degli spazi di democrazia, come risultato della crisi della rappresentanza tradizionale. Se lo Stato ha avuto una funziona attiva nella programmazione dell’insicurezza sociale, dentro il quadro di una modifica di lungo corso della sua forma istituzionale, non è limitandosi a chiedere genericamente più Stato che si reinventa l’universalità del welfare. Reinventare universalità significa passare per la riappropriazione di nuovi istituti di democrazia, significa costruire con pazienza quello che abbiamo definito “welfare del comune”. C’è anche questo quando rivendichiamo un reddito di base individuale con caratteristiche tendenzialmente universali.

 

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *