Ad un passo dalla Casa Internazionale delle Donne a Gaza

A metà maggio è partita dall’Italia una piccola delegazione del Gaza FREEstyle composta da attiviste internazionaliste di Milano, Roma e Bologna, con lo scopo di definire l’inizio dei lavori per la costruzione di una Casa Internazionale delle Donne nella Striscia di Gaza.
Dopo il Forum delle donne dello scorso giugno in cui per tre giorni si sono svolti incontri, riunioni e laboratori intorno al tema dell’emancipazione delle donne e delle ragazze, ha avuto inizio un percorso comune che ha coinvolto centinaia di donne intorno a una unica richiesta: la costruzione di un luogo in cui le donne potessero svolgere attività formative, sportive, ludiche e di cura senza dover necessariamente dipendere da una figura maschile.
Ad ottobre, una delegazione di donne palestinesi del Comitato per la Costruzione della Casa internazionale ha raggiunto l’Italia – senza non poche difficoltà -, e ha potuto raccontare del progetto a centinaia di persone grazie al coinvolgimento di associazioni e spazi sociali di diverse città italiane. Nel corso dei mesi a seguire il progetto ha sempre più preso forma, anche grazie all’aumento del numero delle associazioni coinvolte sia in Italia che in Palestina.

Il 18 maggio, mentre erano ancora in corso le tensioni dovute ai bombardamenti israeliani che appena due giorni prima avevano ucciso più di 20 persone nella Striscia di Gaza, siamo riuscite ad entrare nell’enclave palestinese che, resiliente, aveva resistito senza impazzire anche a quest’ennesima guerra.
E’ anche il viaggio che da’ valore alla meta, e raggiungere Gaza è davvero un’impresa difficilissima anche per chi possiede un passaporto europeo.
Nel panorama a ridosso della strada verso l’ingresso nord per la Striscia di Gaza si possono notare dei pini, di cui molti secchi, inseriti in una fauna in cui sono decisamente fuori luogo visto il clima caldo d’estate e mite d’inverno; sono pini che il governo sionista ha piantato o trapiantato per coprire i villaggi palestinesi distrutti anche in tempi più recenti, con lo scopo di liberare l’area per far spazio a infrastrutture o all’arrivo di coloni sionisti provenienti da europa, russia o america.
Sul ciglio della strada, a pochi minuti da Erez, si possono invece notare degli ulivi centenari, con il tronco largo e i rami curati, a un metro preciso l’uno dall’altro: anche quelli sono stati trapiantati dall’amministrazione israeliana, rubati a villaggi palestinesi e piantati altrove per abbellire strade israeliane inaccessibili ai palestinesi.
Su ogni ulivo, almeno 50 prima di raggiungere il primo punto di controllo per entrare a Gaza, è piantata una bandiera israeliana, a rivendicare visibilmente la proprietà di quell’albero.
Superata quella strada, all’improvviso si interrompe l’ordinata follìa fatta di autostrade pulite, ulivi rubati e mc donald’s kosher e si arriva ad una strada quasi sterrata, polverosa e con un odore forte di escrementi proveniente da un cesso chimico vicino al primo controllo per entrare nella Striscia di Gaza.
L’arrivo di una delegazione composta unicamente da donne attira l’attenzione dei tassisti palestinesi che ci osservano ma continuando ad aspettare speranzosi l’uscita di qualche cooperante (o gruppo straniero) per poter guadagnare qualcosa. Non ci sono infatti mezzi pubblici che arrivano in quella zona in apparenza disabitata e desolata, ma che in realtà è l’ingresso di una prigione che tiene rinchiuse più di due milioni di persone in pochi km quadrati.
Entriamo subito dentro l’area al chiuso dell’Erez Crossing, dove ci controllano coi metal detector come se fossimo in aeroporto, ci rilasciano il documento per l’ingresso e ci fanno passare “dall’altra parte”: dopo l’ok silenzioso e forse un po’ infastidito dei soldati israeliani, infatti, attraversiamo un tornello e ci incamminiamo verso un corridoio, oltre un cartello con su scritto “Gaza” con una freccia che indica verso destra. Corridoio, tornello, corridoio di nuovo e ancora tornello, poi finalmente siamo dentro Gaza.

Dall’ordinata follìa qui sopra citata, ci raggiunge il casino confusionario e caloroso di Gaza. Passiamo i controlli rapidamente e veniamo raggiunte dai nostri amici, nel frattempo siamo circondate da decine di persone tra tassisti, porta-borse, poliziotti, tifoserie improvvisate di persone che giocano a scacchi…
Ci allontaniamo velocemente dal border e con le macchine passiamo di fianco al Green Hopes, il parco sportivo multifunzionale come Gaza Freestyle costruimmo una rampa da skate con parametri olimpici nel 2019 e un tendone da circo, e poi raggiungiamo il mare.
Quel mare che i palestinesi che vivono nei territori occupati sognano, perchè non possono raggiungere a causa dell’occupazione sionista.
Raggiungiamo la sede del Centro Italiano di Scambio Culturale Vittorio Arrigoni, e iniziano con le giornate di incontri.

Ciò che emerge fin da subito è la necessità di tutte di continuare il confronto sulle attività da inserire all’interno di un luogo anche se ancora fisicamente non c’è.
Incontriamo la dottoressa T., una donna di origini ucraine che alla fine degli anni ’90 è andata a vivere a Gaza con il marito conosciuto in Università. Non ha mai pensato di tornare in Ucraina, anche ora che pure i suoi genitori vivono come lei in una zona di guerra. Mentre il marito è un cardiochirurgo, lei è una ginecologa ma da due anni non pratica più il mestiere. Vorrebbe poter tornare a praticare il mestiere dando spazio alla medicina naturale e svolgendo formazioni ai/alle più giovani  sulla conoscenza del proprio corpo.
Oppure Sahar dell’Union of Palestinian Women Committee che seguirà lo sportello di supporto psicologico all’interno della Casa, grazie al lavoro ventennale intorno a questo tema a Gaza e non solo.
Anche Enas e la sua associazione We Are Not Numbers, ha presentato il progetto di uno studio per registrare podcast e una redazione per poter produrre materiale scritto. Ancora c’è tempo per capire quale tipo di materiale.
E Yasmin che vuole contrapporre lo studio accademico dell’arte, spesso nozionistico e minimalista, con lezioni pratiche di disegno e writing.
Come loro, anche Marah è arrivata agli incontri proponendo qualcosa e proponendosi come referente del progetto; vorrebbe un’area sportiva dove le ragazze e le donne possono allenarsi senza dover necessariamente pagare per stare tranquille.
Marah infatti insegna alle ragazze a sketare, andare in bici o coi roller, ma lo fa ogni giorno dalle 9 alle 11 al campo sportivo di Yarmuc, pagando ogni volta per entrare. Pagare per non ricevere il giudizio maschile per strada sembra l’unico modo oggi per permettere alle ragazze di allenarsi, soprattutto da quando Hamas ha demolito la rampa da skate al porto, dove anche Marah e altre ragazze si allenavano assieme al Gaza Skate Team.
Ma certamente non sono le difficoltà a fermare queste donne.
Dopo gli incontri abbiamo visitato insieme il terreno che il Comitato è riuscito ad ottenere con molte difficoltà, dala municipalità di Az-zahra; sono serviti tanti incontri infatti negli ultimi mesi per trovare un terreno, e dopo l’ultimo confronto tra la municipalità e il Comitato per la costruzione della Casa finalmente raggiungiamo un altro grande obiettivo: abbiamo un terreno!

Quando siamo andate a vedere insieme i 4mila metri quadrati concessi dalla municipalità, amministrata da un sindaco giovane e una giunta attenta alle problematiche della popolazione più fragile, abbiamo passato insieme diversi meravigliosi minuti carichi di immaginazione.
Venti donne in mezzo a della terra secca che guardano verso diversi punti disegnando con la mente la struttura della Casa: qualcuna immaginava il posizionamento dello skatepark per sole ragazze e donne, qualcun altra disegnava in aria con il dito l’area adibita al giardino fuori dalla casa, altre ancora non avevano capito quanto terreno ci era stato concesso tra tutto quello ancora libero per altri progetti sociali.

Sentendoci sempre più vicine all’inizio del progetto che da diverso tempo portiamo avanti insieme, abbiamo vissuto i restanti giorni nella Striscia di Gaza approfondendo la conoscenza tra vecchie e nuove arrivate, all’interno di questo gruppo composto da donne italiane e palestinesi di Gaza.
Bere un caffè in riva al mare o passeggiare la sera sul lungomare di Gaza City è un’esperienza preziosa, che non molti stranieri possono fare a Gaza, ma che ci permettiamo grazie alla fitta rete di amicizie intorno al nostro progetto.
Non ci si può dimenticare che camminiamo su una terra martoriata da decenni di guerra. Ahmed ramly, uno scrittore e amico di Gaza, un giorno ci ha detto: “Le persone di Gaza non sono nè eroi nè vittime, non vogliamo essere considerati tali. Siamo persone che sono nate qui e che non sanno se una bomba metterà fine alle nostre vite”. Intorno a noi c’erano studenti in sessione di esame che occupavano tutti i tavolini di questo bar con vista mozzafiato che si chiama Ristretto. “Io in quanto giovane che vive a Gaza devo scegliere se bermi questo caffè e ignorare il drone che fa rumore sopra le nostre teste, o se concentrarmi sul terrore che mi fa”.
E la realtà di queste storie ci arriva spesso come uno schiaffo, e ci aiuta a ridimensionare le nostre emozioni. Ma sopratutto a continuare a portare la nostra solidarietà e a voler alimentare lo scambio culturale con il popolo palestinese di Gaza.

Il Gaza FREEstyle si avvicina alla sua decima Carovana, che darà spazio alle consuete attività sportive e di scambio culturale.
Avremo tempo per questo annuncio, ma oggi assimiliamo l’energia ricavata durante questi ultimi 10 giorni a Gaza, in cui come Progetto Donne GFF abbiamo potuto concretizzare ulteriormente questo sogno comune di aprire una Casa internazionale per tutt* e di tutt*.

Vuoi saperne di più?
SCRIVI A: progettodonne.gff@gmail.com
oppure alla pagina @GazaFreestyle sia su facebook che su instagram

Il progetto si regge grazie alle donazioni. Contribuisci alla Costruzione di questa Casa internazionale!
DONA QUI:
C/O Banca Etica
Intestazione: “Mutuo soccorso milano APS”
Iban: IT92F0501801600000016973398
Causale: CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE A GAZA

Foto in copertina di Leone Scacchetti

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