Il presidio in Tribunale di Milano di NonUnaDiMeno

A giugno 2019 un uomo aggredì la propria convivente alla quale lamentava reiterati tradimenti con uomini conosciuti su Facebook. In quell’occasione ebbe un exploit di violenza: la minacciò con un coltello e la prese a pugni; la trascinò per i capelli gettandola sul letto, la sequestrò per l’intera notte imponendole atti sessuali.

Per questi reati l’uomo era stato condannato dal Tribunale di Monza in rito abbreviato a 5 anni e, successivamente, la Corte d’Appello di Milano ha abbassato la pena a 4 anni e 4 mesi.

Non siamo qui per commentare la quantità di pena inflitta, bensì per denunciare il ragionamento che ha condotto i tre giudici della Corte d’Appello a considerare che l’aggressore fosse meritevole di un abbassamento di pena.
La Corte, infatti, ha ritenuto che alcuni atteggiamenti della convivente possano aver contribuito a creare un contesto di degrado tale per cui l’uomo ebbe una reazione scomposta, conseguenza di uno stato di alterazione psico-fisico tale da far scemare il dolo e, di conseguenza, portare ad una riduzione di pena.

Gli atteggiamenti della donna che la corte prende in considerazione sono le sue abitudini sessuali.
Su questo, è stato costruito il quadro all’interno del quale meglio comprendere la reazione dell’uomo definendola “esasperata”.
Ma cosa ha fatto questa donna?
Frequentava persone conosciute su Facebook.
Non ci pare che sia reato.
Intratteneva relazioni sessuali con uomini fuori dalla sua coppia.
Non ci risulta che sia reato.

Eppure la corte ha definito questi atteggiamenti “anomalie” in grado di caratterizzare il contesto familiare.
Non viene considerato solo il comportamento dell’aggressore, ma è giudicato anche quello della vittima, in qualche modo ritenendo che la responsabilità dell’uomo sia stata attutita dal comportamento della donna.
Perché la corte osserva, discute ed infine commenta i comportamenti della convivente aggredita? Perché mai le abitudini affettive e sessuali di quest’ultima dovrebbero essere rilevanti?
I giudici hanno giudicato la vittima, trovando nel suo comportamento una spiegazione della violenza di lui.
I giudici hanno giudicato la donna secondo i parametri della nostra società patriarcale, per la quale la “disinvoltura” di una donna è un’offesa per l’uomo che sta con lei e secondo cui la fedeltà è un obbligo (per le donne ovviamente). Un modo di pensare che pervade ogni ambito della nostra vita, fino alle aule dei tribunali, che giudicano le violenze di genere con parametri che non usano per altri reati: quando viene rubata un’auto, quando avviene una rapina in banca, o uno scippo per strada non si dà la colpa al proprietario del bene per averlo indossato con tanta disinvoltura. Non si colpevolizza il proprietario di un’auto per averla lucidata.

La verità è che la violenza di genere non viene riconosciuta fino in fondo dagli operatori giudiziari, perché non sono formati sul punto e perché le nostre leggi sono il frutto di una società patriarcale.
Noi chiediamo un percorso ad hoc per gli operatori del diritto, che ricevano adeguata formazione affinché chi subisce violenza non venga messa sul banco degli imputati.
E’ necessario operare nel modo corretto il contrasto alla violenza maschile sulle donne e le discriminazioni di genere.
Quando una donna denuncia subisce un processo informale e la violenza giudiziaria porta a enormi ricadute sul piano giuridico, psicologico e sociale.
Arriva persino a condizionare le donne a non denunciare per il rischio di ritrovarsi a essere trattate come imputate.

Puntiamo il dito contro la violenza nei tribunali per ricordare, ancora un volta, che la violenza è strutturale e che noi vogliamo un cambiamento radicale della società perché ci vogliamo vive, libere e disinvolte!

Non Una Di Meno Milano

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