Oltre ai social, fare rete

Premesse

“15 years ago, the internet was an escape fom the real world.

Now the real world is an escape fom the internet”

(Noah Smith – Columnist di Bloomberg)

“Te web is dead. Long live the Internet”

(Chris Anderson – direttore di Wired Usa dal 2001 al 2012)

“Internet is broken”

(Edward Snowden – informatico e attivista statuinetense, ex consulente della CIA)

Vorrei partire dal libro Platform Capitalism di Nick Srnicek perché descrive bene i contorni dell’era attuale. Il “capitalismo delle piattaforme” nasce dall’intuizione che alcune delle principali compagnie mondiali per fatturato come Google e Facebook, Microsoft, Uber e Airbnb si stiano tutte trasformando in piattaforme. Per piattaforma si intende da un lato, all’interno della tendenza monopolistica, il fornire infrastruttura software e hardware all’apparenza a basso costo o gratuita, dall’altro l’avere in comune una propensione a “centralizzare, integrare, sintetizzare”. Che non è soltanto l’esatto opposto dell’ideologia della rete, dei network decentralizzati e destrutturati, ma è soprattutto la creazione di una infrastruttura di sorveglianza che monitora e raccoglie dati in maniera pressoché silente, profilando gli utenti e contribuendo a rendere internet un giardino recintato.

Si tratta di un vero potere che va oltre la dimensione politica nota fino a cinque o dieci anni fa. Qui si parla di “Managing of the Crowd”, “Managing of the Social”. È la gestione delle folle e dei gruppi sociali, tramite la raccolta di Big data, per assumerne il coordinamento, la guida e dunque, alla fine, il dominio sul modo in cui le persone si relazionano fra loro, online e offline.

Il caso Cambridge Analytica e le dichiarazioni di Salvini e Di Maio, orientate da milioni di profiling, ci dovrebbero dire qualcosa a riguardo. Da dove nasce questo grande potere? Sostanzialmente nasce dall’assuefazione, quella che Geert Lovink chiama “Techno Uncosciousness”, cioè l’incoscienza tecnologica.

Non vorrei scrivere un testo troppo “teorico”, sono un docente, ma anche un operaio del web e quindi la dico così: l’hanno pensata maledettamente bene. È proprio nella sua apparente normalità, nella faccetta sorridente, nelle tante emoticon, nei “mi piace” – come se fossimo in un regime New Age – che si nasconde un processo molto simile alla riduzione in schiavitù.

Frank Pasquale, dell’università di Harvard, ha scritto Black Box Society, un libro in cui evidenzia come intorno alle grandi aziende che operano su internet ci sia una grande opacità, una “logica del segreto”. Esiste un riserbo totale delle architetture digitali che è esattamente l’opposto della trasparenza dei nostri dati, sempre più fruibili. Non serve un agente cospiratore per immaginare che gli algoritmi possano essere non-neutrali.

Forse però, dopo quindici anni di social, la sbornia da accelerazione di scambi digitali inizia ad assomigliare sempre di più a un rumore di fondo assordante e si fa strada la percezione di aver perso già troppo tempo dentro il “giardino” di Facebook. Si chiede Geert Lovink: “Come perdere interesse in qualcosa che è stato progettato per essere indispensabile? Quali le tecniche più efficaci per ridurre il rumore sociale e i flussi continui dei dati che gridano per avere attenzione?”

 

Problematicità

“Snapchat is like heroin”

(Justin Rosenstein – inventore del pulsante “mi piace di Facebook)

“Social media is destroying society”

(Chamath Palihapitiya – ex dirigente di Facebook)

Si definisce “social glue” quella colla sociale fatta di relazioni e contatti umani dentro la quale siamo imbrigliati in una rete quotidiana di menzioni e like, da cui facciamo fatica a liberarci per paura di sentirci soli. È una colla progettata per creare dipendenza, studiata testando i processi chimici del cervello. Facebook – a differenza di MySpace o altri – è ormai una piattaforma che non può chiudere perché ha conquistato (o rinchiuso) troppa gente. Il capitalismo delle piattaforme è qui per restarci.

Le conseguenze del passaggio dal codice html aperto del web 2.0, dal web semantico dell’html5, agli algoritmi invisibili dei sistemi chiusi dei social sono l’appiattimento dei contesti sociali e la riduzione codificata delle relazioni umane complesse. In Italia la comunicazione binaria di Salvini, con la costante ricerca del nemico esterno è un buon paradigma di tutto questo, così come l’America First di Trump, la campagna sulla Brexit e in generale tutta la strategia dell’Alt-Right. Ora forse basterebbero queste valutazioni per seguire il suggerimento di Sun-Tzu per cui non si deve concedere al nemico la scelta del terreno di scontro. Occorre, però, introdurre altri due aspetti della questione: la bolla e la produzione.

La bolla che circonda la rete, tanto Facebook quanto Google, non è soltanto un’ammucchiata partecipativa, ma qualcosa di ben più grave. È una prassi che risucchia le persone in una caverna sociale, in cui abbiamo l’illusione di essere tutti affini o amici soltanto perché un algoritmo si preoccupa di mostrarci non dei risultati globali, ma i risultati più affini ai nostri interessi o alle nostre inclinazioni politiche. È questo il motivo per cui l’impatto politico e sociale di quello che produciamo in rete è molto limitato.

Quanto alla produzione credo possa essere schematizzata in tre settori. La produzione materiale: il cibo che mangiamo, il vino che beviamo, i libri che leggiamo, i vestiti che mettiamo, la musica che ascoltiamo, le tecnologie che usiamo. Ovviamente anche qui abbiamo delle big companies che stanno tendendo al monopolio, vincendo il confronto sul nodo della distribuzione. Ma sicuramente per ciascuno di questi aspetti abbiamo avuto degli esempi più o meno diffusi di pratiche di resistenza messe in atto dai compagni: dai gruppi di acquisto, al progetto CriticalWine poi Terra Trema, dalle case editrici indipendenti a Serpica Naro e quel che ne è seguito. Dalle etichette ai gruppi musicali “indipendenti”, passando per tutto quello che è stato fatto in tema di tecnologie open e finendo a qualsiasi aspetto della produzione umana.

Passando al secondo settore, la produzione immateriale, questa non è soltanto l’adagio per cui “se qualcosa è gratuito il prodotto sei tu”, ma anche il modello di impresa di internet basato sul “gratuito e aperto”. Come sottolinea di nuovo Lovink “Dal sofware libero alla musica gratuita è andata così imponendosi la cultura della copia, rendendo difficile ai produttori di contenuti culturali guadagnarsi da vivere tramite la vendita diretta”. Una formula quindi che si rivela essere nient’altro che un elemento di speculazione a tutto vantaggio di imprenditori e agenzie con grandi disponibilità economiche.

Il terzo settore produttivo riguarda il piacere. Il piacere delle relazioni umane è alla base del funzionamento delle tecniche di gamificazione ed è la materia viva su cui si costruisce il successo del social media commerciale gamificato. A dei meccanismi di cattura così efficaci dovremmo essere in grado di contrapporre dinamiche non mediate da logiche commerciali, ma fondate sulle relazioni vive.

 

Leve nascoste

“Technology is an Extension of the Human Body”

(Marshall McLuhan – sociologo e filosofo canadese)

Tristan Harris è un noto interaction designer della Silicon Valley. Su “Medium” ha pubblicato un articolo dal titolo “How Technology Hijacks People’s Minds — from a Magician and Google’s Design Ethicist” in cui sostiene che i social media replicano il meccanismo psicologico che sta dietro alle slot machine. Questo meccanismo, testato prima sugli animali in gabbia, si chiama “intermittent variable rewards”, cioè ricompense intermittenti di natura variabile. Lo scopo è quello di massimizzare la dipendenza collegando l’azione di un utente – tirare la leva della slot machine o aggiornare il feed dei social – con una ricompensa variabile, più varia è la ricompensa più grande sarà la dipendenza. Il condizionamento operante, teorizzato da Skinner in seguito ai sui esperimenti (Skinner box) è la tecnica che sta alla base tanto delle slot machine e dei principali problemi di ludopatia, quanto della gamificazione sui social. Il tutto (così come diversi dei concetti espressi sopra) è ben descritto dal collettivo Ippolita sia nel libro “Anime elettriche” che in “Tecnologie del dominio”.

La distrazione permanente è una condizione necessaria per il funzionamento dell’economia dell’attenzione, un’economia, come racconta bene Tim Wu nel suo “The Attention Merchants“, nata con la vendita di spazi per la pubblicità sui primi quotidiani popolari, proseguita attraverso la nascita del broadcasting commerciale nel Novecento, per poi prendere la forma contemporanea dei social media commerciali.

Qui ci sono un paio di conseguenze di breve e medio periodo che credo si stiano sedimentando. La prima è la tesi, che mi sento di confermare, secondo cui quanto più accrescono le capacità tecnologiche tanto più diminuisce la facoltà immaginativa delle persone. La seconda è che nelle tecnologie le persone riversano la loro parte peggiore. Non serve il lavoro del filosofo tedesco Peter Sloterdijk e la sua analisi del concetto di “ira online” per avere conferma di questo tema ricorrente. Basta vedere le bacheche dei politici “populisti” e l’odio che alimentano per notare questa tendenza. Ma servirebbe anche chiedersi: questo desiderio di riconoscimento espresso online è indignazione autentica? Si tratta di sdegno genuino o di culto del rancore?

 

False soluzioni

“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza, in profondità,

succhiando tutto il midollo della vita”

(Henry David Toreau – filosofo, scrittore e poeta statunitense)

#deleteFacebook è una campagna partita qualche mese fa, sull’onda emotiva provocata dalle rivelazioni del Guardian su Cambridge Analytica. Dopo aver occupato l’agenda dei media per qualche giorno non ha prodotto alcun vero movimento di fuga collettiva da Facebook. Gli adolescenti in realtà fuggono da Facebook, ma semplicemente perché è uno spazio pieno di adulti, finendo tra l’altro su Instagram, sempre dentro all’impero mediale (mediatico?) di Zuckerberg.

Come suggerisce di nuovo Geert Lovink il “digital detox” per quanto sano, non è una soluzione sostenibile nel lungo periodo, e non è nemmeno una soluzione politicamente rilevante: “La disillusione nei confronti dei social media ha come unico effetto quello di stimolare ancor di più, da parte delle piattaforme, la ricerca di tecniche di manipolazione sempre più raffinate… rifugiarsi nei boschi senza un telefono cellulare, non ci aiuterà nel lungo periodo. Le strategie di disintossicazione o di autodisciplina, servono solo alle corporation a fare ancora più soldi.” Solo un’azione collettiva, non la forza di volontà del singolo, può liberarci dallo stato permanente di distrazione.

Sinceramente credo che offline esistano soltanto delle posizioni romantiche e non praticabili. Ovviamente non credo neanche che sia salutare avere l’ufficio in tasca e lavorare sempre da ovunque. Gli aggiornamenti costanti online fanno perdere la capacità di attenzione e concentrazione. E questo avrà conseguenze sulla società nel lungo termine. Sono però abbastanza ottimista sul fatto che tra pochi anni sarà poco cool controllare il proprio smartphone di continuo in pubblico. Al Bulk nel 2001 per dire che uno era “indietro” dicevamo “come sei nove-nove”. Magari tra un po’ qualche giovane dirà “sei così 2011” di chi sta sempre attaccato allo smartphone.

Qui e ora il punto non è tanto staccare la spina da Facebook o essere più consapevoli dei meccanismi per controllare meglio gli effetti, ma riprendersi gli spazi di libertà su online.

 

Discontinuità

“Nolite te bastardes carburandorum”

(June Osborne – Te Handmaid’s tale)

“Profe, Hay que seguir”

(Nairobi – La casa de papel)

“Non speriamo che sia Internet a darci la libertà.

Tra i due concetti non c’è alcuna relazione”

(Geert Lovink – saggista e teorico della rete olandese)

Se c’è un motivo per alimentare una campagna di fuoriuscita da Facebook questo non è tanto il proteggere i nostri dati personali, ma proteggere le nostre limitate risorse di attenzione. Ma il problema è più ampio della singola campagna contro Facebook, ovvero riguarda la possibilità di praticare una resistenza allo stato di distrazione permanente facilitato da un intero ecosistema di social media commerciali. È da questo regime di distrazione permanente, spesso demenziale, che dobbiamo scuoterci. E possiamo scuoterci soltanto collettivamente.

È un processo completamente politico che richiede più passaggi. Il primo è una presa di coscienza collettiva dei meccanismi di valorizzazione dei nostri dati. Del processo continuo di cessione gratuita di valore, informazioni, in ultima analisi di lavoro gratuito. E quando questa consapevolezza sarà diffusa, servirà l’articolazione di altri strumenti, non commerciali, di natura pubblica, qualcuno direbbe commons, non progettati per tenerci attaccati alla macchina, ma comunque utili per intermediare relazioni sociali significative.

I social media, in quanto media, sono irreversibilmente parte della vita come altri beni di consumo, sono di fatto uno strumento quotidiano perché offrono delle funzionalità a cui quasi nessuno singolarmente è disposto a rinunciare. Però iniziamo a fare una prima distinzione fondamentale: una cosa sono i social media, tendenzialmente esclusivamente commerciali, una cosa sono i networks. Questa distinzione ci offre un primo elemento di discontinuità verso una soluzione. Che cosa sono i networks? Sono gruppi di persone, che non partono dall’essere utenti/fruitori di qualcos’altro ma si organizzano e operano oltre l’economia dei Like e delle connessioni deboli. Che si aiutano reciprocamente, oltre e altro rispetto ai banner pubblicitari e allo sharing offerto da Airbnb e Uber.

Internet è già di per sé un social network. I movimenti sociali di fine anni ’90 erano già reti sociali. Dagli albori il Kraakspreekuur (le occupazioni di case organizzate ad Amsterdam e in tutta l’Olanda) era una festa del networking, ma anche nella storia dei movimenti e dell’Italia tutta non mancano certo esempi di forza sociale delle relazioni. Una forza che ora si deve esprimere anzitutto attraverso una prima radicale negazione, “The force of negation”, che sa e vuole dire basta al sistema che ci ha condotti fino qui, a poteri enormi basati sulla Economia dei Like, in vista però di costruire qualcos’altro “A world beyond Facebook”. Esattamente come nelle relazioni amorose che si trascinano troppo, è ora di capire come fuggire da una vita che non vogliamo più che sia calcolata insieme. È stato divertente finché durato, ma ora bisogna andare avanti. Hay que seguir.

E bisogna andare avanti insieme, riscrivendo, anche e anzitutto in digitale, una narrazione collettiva che a livello di immaginario non può essere relegata soltanto alle pur fighissime maschere di Dalì de La Casa di Papel, alle tuniche rosse di Handmaid’s tale e, prima, alla maschera di Guy Fawkes di V per Vendetta.

 

Soluzioni

 

“Condotti da fagili desideri, tra puro movimento in moto, con sospetti e automatiche simpatie

nel bel mezzo del progresso di diversi colori tra quali il nero il verde il moderno

tifamo rivolta, tifamo rivolta, tifamo rivolta”

(CCCP – Trafitto)

“Invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo”

(Ivan Illich – scrittore e filosofo austriaco)

Come si fa a fare la cosa che sta scritta nell’ultima citazione? Nel nostro caso mettendo in crisi lo stato di distrazione permanente che inducono questi strumenti per fini di profitto. Chiaramente questa exit strategy non è soltanto digitale, ma anche sociale, economica e politica. Occorre fare dei Network organizzati autonomi che creino quello che Lovink chiama un “Rinascimento cooperativo su internet”. Questo Rinascimento Cooperativo sta su Internet, ma sta anche anche offline, ed è basato su quelle “Basic Units”, quelle organizzazioni che, non c’è nessuno che l’ha detto in modo più nitido di Errico Malatesta, “non sono che la pratica della cooperazione e della solidarietà”.

Un progetto politico che non sta praticando nessuno. A Bruxells nessuno si preoccupa di creare maggiore trasparenza sugli algoritmi. I cinque stelle, paladini della rete, che si poggiano su una piattaforma pacchiana, sguazzano dentro Facebook e i suoi Big Data e non si pongono certo il problema di un’alternativa. Questo perché le cose hanno sempre un nome solo: il liberalismo capitalista che ha distrutto il mercato, creando monopoli. Prima citavo Airbnb e Uber: non è forse vero che bloccano sul nascere tutte le alternative locali? Questo perché già negli anni ’80, nell’era di Reagan e della Tatcher, si era dissolta la speranza che lo Stato fosse in grado di riformarsi.

La risposta è sempre stata la stessa: un’enorme quantità di energie profuse nel do-it-yourself, iniziative create ex-novo da noi singolarmente, con il supporto di mezzi di comunicazione alternativi, via via negli anni, con immaginari sempre più colonizzati, fino al fenomeno delle Start Up. Direi che salvo rarissime eccezioni (ad esempio i maker) quindici anni dopo siamo ancora allo stesso punto. Anzi più soli, più frustrati e più sfruttati.

Credo che il modello delle reti Peer-to-peer ci dia una possibilità concreta. Prima di tutto di calarci nel Mondo del 2018, la cui vita sociale ha subito una trasformazione radicale da quando Marx ha identificato gli stabilimenti manufatturieri di Manchester come il simbolo della nuova società capitalista. Il peer-to- peer è la dinamica umana che emerge dai network distribuiti. Il peer-to-peer fa emergere un terzo modello di produzione: produrre valore d’uso attraverso la libera cooperazione di produttori che hanno accesso a capitali distribuiti. Un terzo modello di governo: processi governati da comunità di produttori stessi, e non dalla allocazione di mercato o dalla gerarchia aziendale. Un terzo modello di proprietà: il valore d’uso è liberamente accessibile su base universale, attraverso un nuovo regime di proprietà comunitario.

Le pratiche collaborative che abbiamo messo in campo finora hanno operato su un livello completamente diverso. Il punto riguarda sempre la scalabilità, ma se rifiutiamo questo dispositivo arriveranno altri ad implementarlo. Si deve battere la logica della start-up e mettersi a fare cose interessanti, come fondare delle cooperative e lanciare strutture basate sulla dinamica umana del peer-to-peer, inventandoci nuove forme di pagamento per la gente che ci dedica del tempo, e trovare forme alternative di finanziamento. Una nuova grande alleanza sociale che crei un dispositivo in cui parte di quello che produciamo può essere sottratto alle piattaforme per essere messo in comune. Un’alleanza che abbracci lavoratori autonomi, progetti collettivi, servizi, spazi sociali. Un mutuo soccorso basato sul meccanismo semplice dell’offerta di vantaggio in cambio dell’accesso ad una rete di vantaggi che sappia immediatamente amplificare e sostenere i modelli integrativi come ad esempio Riace. Se non lo facciamo, e lo possiamo fare solo noi, l’Europa è persa e la guerra imminente. Dobbiamo trasformare la rivoluzione digitale in un’economia veramente decentralizzata capace di garantire benefici a tutti.

Può un’economia peer-to-peer decollare davvero? Il liberalismo, lo sappiamo, è dominato da dinamiche inventate da pochi affamatori senza scrupoli e tenterà sempre di distruggere le iniziative che partono dal basso. Questo è sicuro. Però non possiamo reinventarci una lotta senza partire dalle nostre condizioni e costruire una barricata per dire che di qua ci stiamo noi e di là ci stanno loro. Se dobbiamo portare in giro la nostra lotta serve una nave pirata, ma serve anche una Mompracem dove tornare.

La struttura della rete non riguarda soltanto la comunicazione, bensì l’intera società, e rimane quindi lo strumento primario per l’aggregazione e lo sviluppo di potenzialità per il cambiamento.

Internet è una cosa meravigliosa e non si capisce perché dobbiamo lasciare che venga fagocitato da Facebook e Google che stanno piegando lo strumento alla creazione di una società della paura.

Vorrei aver scritto un articolo tutto sommato se non positivo almeno propositivo e perciò chiudo con una citazione a cui sono affezionato: “È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente.” (Primo Moroni)

Federico De Ambrosis

Tag:

Una risposta a “Oltre ai social, fare rete”

  1. bida ha detto:

    avete scritto questo articolo dicendo:

    Occorre fare dei Network organizzati autonomi che creino quello che Lovink chiama un “Rinascimento cooperativo su internet”. Questo Rinascimento Cooperativo sta su Internet, ma sta anche anche offline, ed è basato su quelle “Basic Units”, quelle organizzazioni che, non c’è nessuno che l’ha detto in modo più nitido di Errico Malatesta, “non sono che la pratica della cooperazione e della solidarietà”.
    Un progetto politico che non sta praticando nessuno.

    eppure dovreste saperlo, esistono gia’ questi progetti che stanno cercando di riappropriarsi dei social network attraverso l’autostione. Eccone uno:
    https://mastodon.bida.im/

    tra l’altro ci siete anche voi https://mastodon.bida.im/@milanoinmovimento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *