Piazza Ferravilla. Sulla relatività del profitto
Questa mattina si è svolta una delle udienze del processo che vede imputati cinque militanti milanesi e due solidali del Nord-Est per lo sgombero avvenuto nell’ottobre 2012, quando il centro sociale aveva casa nelle quattro ville liberty di proprietà di Aler in Piazza Ferravilla 11.
Come hanno confermato gli stessi abitanti del quartiere, al momento dell’occupazione le suddette villette si trovavano in stato di abbandono da più di un decennio ed erano diventate un polo di degrado, in particolare per quanto riguarda il consumo di eroina. Tant’è vero che il primo impegno dei neo-occupanti degli stabili è stato quello di ripulire completamente lo spazio da siringhe e rifiuti di ogni genere, nonché la parziale messa in sicurezza di parti particolarmente pericolanti.
A quel punto, le villette sono state restituite al quartiere, arrivando a diventare – nel momento di massimo impegno e spazio d’azione da parte del collettivo e supporto da parte della comunità residente – un vero luogo di aggregazione sociale in grado di mettere a disposizione spazi e iniziative per le più varie fasce di età e tipologie di interessi.
Tutto questo è proseguito dall’aprile fino all’autunno quando Aler ne ha chiesto lo sgombero, sulla scia dalle continue pressioni dell’allora Assessore alla Casa della Regione Lombardia Domenico Zambetti, che scriveva quotidianamente, qualcuno potrebbe fin dire ossessivamente, alla Questura invocando il “ripristino della legalità”. Quella stessa legalità che lo ha condannato in appello nel febbraio 2017 per voti di scambio con la ‘ndrangheta.
Abbiamo già raccontato la storia della successiva rioccupazione e conseguente sgombero avvenuti nel 2014.
Tornando invece all’oggi, mentre nelle aule del Tribunale di Milano si svolgeva l’udienza a quasi sei anni dai suddetti eventi, se qualcuno si volesse recare sul luogo del crimine, scoprirebbe che le villette di Piazza Ferravilla 11 sono oggi circondate da un cantiere perché oggetto, e anche qui qualcuno potrebbe dire vittime, del nuovo progetto Quartiere Liberty Del Sarto.
“RIPORTARE LO SPLENDORE LIBERTY”, questo lo slogan altisonante che appare a grandi caratteri sulla pagina web dedicata al progetto sul sito dello studio DFA Partners, incaricato “di restituire alla sua originaria bellezza l’intero lotto, ragionando sulle percorrenze, rivitalizzando il verde e operando un restauro conservativo delle facciate. Un maquillage che renderà maggiormente appetibili le singole villette, che oggi vertono in uno stato di degrado e semi abbandono dopo che il centro sociale Lambretta ha lasciato l’occupazione”. E per chiudere: “Il progetto di risanamento vede il consenso del quartiere afflitto da tempo da questo dormitorio occasionale di senza tetto”.
Poco sopra leggiamo invece: “Da tempo la proprietà – Aler – tentava di vendere questi immobili, per raccogliere fondi da destinare alle manutenzioni, ma molte aste sono andate deserte. Finalmente la vendita del complesso è riuscita e la società Quartiere del Sarto srl – formata per l’occasione da un gruppo di immobiliaristi – si è aggiudicata l’intero complesso”.
La società Quartiere del Sarto S.r.l. ha comprato quindi le villette per 11.120.000 euro.
Quello che abbiamo davanti è dunque, udite udite, l’ennesimo caso di privatizzazione di patrimonio pubblico – peraltro sotto tutela dei beni culturali – nella forma di progetto di un polo abitativo di lusso che prevede “Ville da 150 a 500 mq […] ognuna dotata di giardino privato caratterizzato dalla presenza di essenze pregiate. […] Così viene restituito all’antico splendore un pezzo della storia di Milano e l’innovativo progetto dell’architetto Giovanni Broglio”.
Un’importante pezzo di storia milanese che, insieme all’esimio architetto Broglio, pare però essere stato dimenticato per lungo tempo dalle amministrazioni, fino a quando l’occupazione del CSOA Lambretta non gliel’ha magicamente fatto tornare alla mente.
Ora, potremmo aprire un dibattito sulla ormai brevettata tendenza milanese a trasformare spazi ed edifici pubblici, ma anche semplicemente accessibili ad ampio raggio alla cittadinanza, in residenze di lusso completamente inaccessibili per la grande maggioranza attraverso progetti patinati spacciati come l’avanguardia della progettazione architettonica. Che altro poi non sono se non una messa a lucido e una grottesca “europeizzazione” di facciata dei tipici progetti di complessi abitativi per la nuova e sempre più snella classe borghese che hanno cominciato già da anni a imperversare nella periferia metropolitana e nelle provincie lombarde, opere di architetti più o meno “star” (si va Bosco Verticale di Stefano Boeri al meno ambizioso progetto Dodici O che interesserà l’area dove sorge l’ex-Zam di via Olgiati 15, finanziato da Nexity, una “multinazionale francese, quotata alla Borsa di Parigi. Un gruppo immobiliare e numerosi progetti di alto profilo in Europa”).
Tuttavia, visti gli eventi legali di questa mattina, torniamo invece alla smemoratezza di Aler, della Regione e dell’amministrazione per quanto riguarda alcuni spazi “momentaneamente” abbandonati a loro stessi, di cui numerosi esempi possono essere riscontrati in giro per la città.
E torniamo anche alla sentenza del gip di Milano che ha respinto le accuse della Procura nei confronti di due studenti del collettivo di Lume per l’occupazione dell’ex deposito dei Giardini di Porta Venezia in Viale Vittorio Veneto, di cui abbiamo parlato qualche settimana fa. Secondo il giudice “Non è reato occupare un edificio se la condotta ha scopo dimostrativo con la finalità di stimolare gli enti pubblici a una più proficua utilizzazione degli spazi per finalità connesse con il godimento della collettività e della cittadinanza”. Rimandando la discussione sulla relatività del concetto di “proficua utilizzazione”, vorremmo invece far notare il parallelismo tra la pratica di valorizzazione di spazi abbandonati, che ci sembra palese e memorabile anche per la mente più smemorata.
S_M
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