Solitudine radicale – Intervista a chi ha perso un proprio caro a un anno dall’inizio della pandemia

A maggio ci hai raccontato come il Covid si è portato via Carlo, tuo padre, in un racconto che descriveva lo stato di abbandono totale in cui sono stati lasciati i malati e le famiglie durante la prima ondata della primavera 2020. Hai percepito che nei mesi sia cambiato qualcosa nella presa in carico dei malati? E per quanto riguarda le famiglie delle vittime?

Io faccio parte del gruppo “Noi denunceremo” che è nato quasi da subito per raccogliere le testimonianze e le storie delle vittime e delle loro famiglie. Da aprile in poi non ho visto molte differenze né per quanto riguarda le modalità che portano al decesso delle persone né rispetto alla narrazione che c’è dietro queste morti. Spesso le testimonianze che ho letto riguardano persone entrate in ospedale per altre motivazioni, infettate in ospedale e che non sono più ritornate. Quello che percepisco nei racconti è la gigantesca solitudine. Questa solitudine radicale legata non solo alla perdita in sé ma al contesto che c’è intorno, non solo alle regole del distanziamento sociale che impediscono che tante persone si riuniscano attorno alla famiglia in lutto, ma più probabilmente a una mancanza di punti fermi, di solidarietà. Perché nel momento in cui ti devi relazionare a tutta una serie di persone che fanno gli opinionisti improvvisati senti minato anche il tuo dolore e sminuite le difficoltà che una perdita così improvvisa porta con sé. Ho letto storie di persone di 30, 40, 50, 60 anni che hanno lasciat0 casa per recarsi in ospedale con le proprie gambe e che non sono più tornate. Persone giovani rispetto allo standard che è raccontato essere quello più vulnerabile. Credo che la difficoltà di elaborazione di tutto questo sia legata tanto a una morte improvvisa non metabolizzata quanto al contesto di confusione che c’è attorno a questa pandemia. Sono elementi che si intrecciano. Non vedo tutto questo rispetto nei confronti delle famiglie che hanno perso qualcuno durante questo lunghissimo anno. Mi ha colpita molto leggere come un antropologo abbia definito i lutti del primo periodo, quello del vero lockdown: delle “morti nude” nel senso che sono mancati tutti gli elementi che culturalmente caratterizzano la metabolizzazione del lutto nella società occidentale, come la vicinanza, il funerale, l’ultimo saluto. È un concetto che mi ha smosso qualcosa nel profondo. Credo che sia molto corretta come formulazione di pensiero.

Nei mesi scorsi, quando ci siamo sentiti, mi hai parlato della tua partecipazione al progetto “Noi denunceremo”. Come si è evoluta la situazione?

Ho mandato la mia denuncia al gruppo, ma non sono stata contattata direttamente a seguito dell’invio. Continuo a seguire il gruppo Facebook, i loro comunicati e le loro dirette. Forse sto facendo fatica, in questo momento, a capire dove vogliono andare a parare, ma fino a oggi hanno fatto un lavoro molto grosso rispetto a tutto quello che è avvenuto nella bergamasca. Si sono concentrati molto su quello che è successo all’ospedale di Alzano e alle mancanze gestionali che hanno provocato a tutti gli effetti un’epidemia colposa. Credo che il lavoro che stanno cercando di fare sia enorme e che sia anche grazie a loro se è stata aperta la maxinchiesta a Bergamo. Sono stati determinanti sia sulla questione della mancata applicazione del Piano Pandemico che sulla raccolta di testimonianze e denunce. Non posso dire che “Noi denunceremo” rappresenti in toto quello che penso e vorrei fare, però sicuramente è una parte importante ed è riuscita comunque ad aggregare e raggiungere un numero enorme di persone: il gruppo Facebook in questo momento conta più di 70.000 persone. Non so come andrà. Io ho mandato la mia denuncia non tanto per la dinamica legata all’ospedale dove mio padre è stato ricoverato e dove è morto, ma perché credo che più sono le storie raccontate e più saranno le denunce, e questo conferirà più forza a quello che stanno cercando di fare. Perché in Italia, come ben sappiamo, giustizia e verità non sono proprio scontate e anzi, ci sono tantissimi casi che non hanno trovato giustizia pur essendo “risolti” a livello storico.

Ti sei spesa molto per organizzare la mobilitazione del 20 giugno sotto la Regione Lombardia, che al momento rimane una delle poche mobilitazioni di massa organizzate per inchiodare la Giunta Fontana alle sue responsabilità. Come hai vissuto quella giornata? Ti aspettavi qualcosa di diverso?

Il 20 giugno è stata una giornata importante pur con tutti i suoi limiti. Uscivamo da un lockdown complesso e questo ha portato a una confusione in ognuno di noi e anche nelle collettività che hanno organizzato quella giornata. C’era ancora tanta paura rispetto al contagio, quindi non mi aspettavo folle oceaniche, ma penso che quella giornata abbia avuto un senso politico forte. Doveva essere la prima tappa di qualcosa di più grosso. Il senso di quella mobilitazione è stato raccolto molto bene durante il Festival delle Brigate con una giornata di dibattito incentrata su salute e sanità, dove abbiamo invitato persone che hanno lavorato a Bergamo e Brescia e che lavorano tuttora sul tema della salute. È stato un dibattito estremamente interessante che purtroppo, per una serie di motivi che posso identificare come stanchezza e fragilità, non ha inciso come avrebbe potuto. Io penso che, per essere veramente efficaci, si debba partire dai territori che si vivono quotidianamente per poi allargare il campo a livello cittadino e regionale. Senza questa visione anche di prospettiva e di struttura non credo si possa essere particolarmente incisivi. È ovvio che è un discorso che dovrebbe essere ampliato a livello nazionale e che la regionalizzazione del sistema sanitario è da abolire, poiché crea troppe differenze e disuguaglianze. Quello che è successo in Lombardia è qualcosa di eccezionale nel senso più negativo del termine. Probabilmente conta anche l’inquinamento, ma la gestione, anzi la non gestione è la chiave principale di questo disastro.

“Cacciamoli” – La grande scritta tracciata sotto la Regione Lombardia il 20 giugno 2020

Secondo te, perché la battaglia sulla sanità, che in Lombardia ha dimostrato tutti i suoi limiti durante l’emergenza, non è riuscita a diventare una battaglia di massa?

Credo dipenda dal fatto che molte realtà che hanno iniziato a muoversi e fare ragionamenti su questo non hanno fatto queste riflessioni prima. Anche noi abbiamo vissuto nell’emergenza e ci siamo mobilitati solo nel momento in cui la situazione era fuori controllo. Non abbiamo mai approfondito, parlo delle realtà che mi rappresentano, questo problema che altrove denunciavano già da diversi anni. Del resto lo smantellamento della sanità pubblica in Lombardia è iniziato da più di vent’anni. Ce ne siamo dovuti occupare nel momento più complesso e più evidente. Questo probabilmente ha portato a una difficoltà di presa in carico e di analisi lucida. In più, credo che sia un argomento talmente complicato e che comporta una serie di aspetti tecnici che magari non invoglia un dibattito più ampio. Anche se sono abbastanza convinta del fatto che non per forza bisogna addentrarsi in elementi tecnici, ma come su ogni altra cosa, ci si deve soffermare sul valore politico che ha un determinato tipo di vicenda. Parlare di sanità  pubblica, laica, gratuita, preventiva e territoriale può essere fatto anche da chi non è tecnico.

Come vivi la carica di Letizia Moratti all’Assessorato al Welfare?

La vivo come una presa per il culo. Dico una banalità nell’esplicitare che Gallera è stato il capro espiatorio di una situazione che è andata al di là del bene e del male. La Giunta Fontana è imbarazzante. Quello che hanno fatto dall’inizio della crisi è imbarazzante. Per la Lega perdere consensi in Lombardia è troppo. Hanno dovuto trovare un “magnifico” escamotage che la dice lunga anche su come è vissuta la politica oggi. Non c’è responsabilità delle proprie azioni. Si scambiano le persone come se fossero figurine. Ti tolgono Gallera perché ne ha fatte e dette troppe e ti mettono un’altra figura assolutamente discutibile che tra l’altro non si differenzia rispetto al pensiero dominante. Anzi! Molto probabilmente se fosse per lei ci sarebbe solamente la sanità privata pagata dal pubblico! È una mossa politica becera. Volta a prendere per il culo la cittadinanza. La realtà dei fatti e che dovrebbero dimettersi tutti, cambiare completamente lavoro e possibilmente andarsi a nascondere.

Anche tu percepisci una difesa, costi quel che costi, del “modello sanitario lombardo” che, in questi mesi, si è dimostrato fallimentare?

Sì. C’è un’evidente difesa di quello che hanno costruito in questi anni. Tutto quello che la cronaca ha descritto in questi mesi e il fatto che nulla sia cambiato dimostra la difesa del “modello lombardo” che è un modello fallimentare per il bene collettivo, ma molto efficiente per le tasche di alcune persone che sono poi, tra l’altro, sempre le stesse da anni. La difesa della sanità lombarda è la difesa di un modello politico. Non possono contraddirsi troppo in questo altrimenti l’impalcatura crollerebbe.

Pensi che, come durante le guerre e nei momenti di maggiore difficoltà collettiva, l’opinione pubblica si sia in qualche modo “abituata” all’ecatombe quotidiana di morti? Anche tu percepisci un senso di rimozione?

Sì, assolutamente. Credo che sia una caratteristica umana che può essere criticata fino a un certo punto. Non è scritto da nessuna parte che tu debba vivere nella stessa maniera un lutto che non ti appartiene. C’è una voglia di rimozione, di ritornare alla normalità del pre-pandemia e forse mi sconvolge più la volontà di tornare al pre-pandemia che il fatto di essersi abituati a tanti morti ogni giorno. Questo perché la normalità “di prima” è ciò che ci ha condotti a questo disastro. Credo che siamo in una condizione di totale mancanza di pensiero critico. Non è detto che quello che ci è stato proposto fino a oggi sia l’unico modello e l’unica possibilità di vita. Questa è una parte che mi spaventa molto delle persone: l’incapacità di uscire dalla mentalità dove c’è chi sfrutta e chi è sfruttato. L’aspetto più agghiacciante per quanto riguarda l’essersi abituati all’ecatombe quotidiana è legato alla voglia di dare la propria opinione su qualsiasi argomento, senza rendersi conto che spesso è calpestato un dolore molto profondo. Se nella morte siamo tutti uguali, il tempo di elaborazione del lutto può cambiare da persona a persona e, in questa situazione, sentire la pressione sociale di chi vuole andare oltre e avanti mette in difficoltà.  La frase “Ci dispiace per i morti, ma dobbiamo lavorare, dobbiamo vivere, dobbiamo andare a scuola, dobbiamo andare al concerto” è sempre più frequente. E del resto sono tutte cose corrette. Sono delle necessità. È normale che sia così. Non capisco perché ci debba essere questa contrapposizione tra il dolore di quasi 100.000 famiglie e lo sconforto di chi sta vivendo una crisi economica ed esistenziale. Questa contrapposizione è frustrante. Credo che si possa anche tornare a un certo livello di socialità e di vita relativamente normale. Basterebbe essere responsabili. Ma spesso e volentieri vedo la volontà di eliminare questa responsabilità e appiattire tutto quello che è successo. Siamo talmente abituati che sta venendo a cadere anche il senso di pericolo.

“Ne usciremo migliori” si diceva in uno slogan abusato la scorsa primavera. Secondo te è andata così? Ed è davvero andato “tutto bene”?

Sicuramente io vivo un momento disfattista e disilluso. Posso dare una visione parziale e legata alla mia vicenda. Penso che le persone che già lo erano prima di tutto questo siano diventate ancor più generose e solidali. Chi invece partiva con un’impostazione individualista lo è diventato ancora di più. Non penso che questa pandemia ci renderà migliori. Penso che ci stia rendendo ancor più frustrati e disorientati di prima. C’è una componente emotiva forte che però ha colpito persone che già prima erano confuse e disorientate. Credo sia il frutto di questa società e del modo in cui ci relazioniamo tra noi. Il tutto amplificato. Forse avremmo potuto uscirne migliori, ma quello che leggo sui social o quello che sento dire al bar mi dice il contrario. Alla fine interessa solo la salvaguardia del proprio orticello. Il ragionare sempre con l’io invece che col noi. Non posso però non considerare il lavoro che in tanti hanno svolto durante l’emergenza. Se vogliamo guardare alla realtà però… lo facevano anche prima! Hanno dovuto riempire dei vuoti istituzionali enormi e sono abbastanza convinta che le istituzioni utilizzeranno tutta questa buona volontà senza poi “legittimala” alla fine dell’emergenza. Le Brigate volontarie hanno fatto un lavoro faticoso e intenso creando anche alternative. Così come tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori della sanità che cercano di fare il loro lavoro nel migliore dei modi con contratti pietosi, mancanza di personale e di strutture adeguate, però, ripeto, chi è generoso lo era anche prima, quindi era migliore anche prima. Qualcosa comunque impareremo. Probabilmente, ce ne renderemo conto più avanti. Al momento vedo solo tanta merda.

Cosa pensi della totale mancanza di empatia di alcune forze politiche ed economiche nei confronti delle famiglie dei morti e del loro dolore, con la loro continua e ossessiva campagna per le riaperture? Ti sorprende?

No, non mi sorprende. E mi disgusta. Credo che non dimenticherò mai quello che ha dichiarato Renzi, e cioè che se i bergamaschi defunti avessero potuto parlare avrebbero detto di riaprire. Così come moltissime dichiarazioni fatte da Salvini e compagnia bella. Non mi meraviglia. Penso che la politica istituzionale sia ormai distante anni luce da quello che succede nelle strade. Sono diventati autoreferenziali e legati solo alla difesa degli interessi particolari dei pochi che detengono il potere economico. Non mi sorprende, dicevo, ma mi disgusta. Salvini è passato dall’organizzare le conferenze semi-negazioniste al Senato con Sgarbi e Bocelli a pregare con Barbara D’Urso per le vittime del Covid. È una persona che vive nell’ambiguità per riuscire ad avere voti da tutte la parti. Non è l’unico. Tanto a loro sono sempre garantiti i soldi ogni fine mese e un posto letto in un rinomato ospedale privato se si dovessero ammalare. La pandemia non è uguale per tutt*.

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