Addio Milano bella

(Qualche giorno or sono, girando sui social network, qualcuno parlando di Milano, della sua vivacità – o meno – culturale e sociale ha recuperato questo testo scritto da John Foot nel 2009. A noi è sembrato uno spunto utile e interessante per chi ha voglia di riflettere sulle trasformazioni di questa città e quindi ve lo riproponiamo)

Nel documentario Malamilano (di Tonino Curaghi e Anna Gorio, 1997), Primo Moroni viene intervistato mentre passeggia nella zona dei canali, il Ticinese: il suo habitat naturale. Moroni era un esperto di storia dei Navigli, delle loro trasformazioni e dei loro ricordi. Per molti versi, era la memoria storica di quel quartiere. Ora lo sgombero della sua libreria, del centro culturale a essa collegato e anche del suo straordinario archivio è un simbolo della trasformazione definitiva di quella zona, e della città stessa. Dieci anni dopo la morte di Moroni, gli spazi culturali innovativi e le reti che lui ha costruito sono stati spazzati via. Moroni non si sarebbe sorpreso di assistere a questa svolta. Forse proprio lui, più di chiunque altro, si era visto la città cambiargli davanti agli occhi. Moroni capiva il rapporto difficile di Milano con il proprio passato, in quanto città, per citare un suo scritto, che «ha mangiato piu volte se stessa». Questa volta, Milano si sta mangiando il proprio passato.

Moroni era un emigrante (toscano), come la stragrande maggioranza delle persone che vivono e lavorano in questa città. Si tratta di un luogo costruito da e per gli emigranti: veneti, meridionali, friulani, sardi, ma anche di Shanghai, Marsiglia o Bogotá. Il Ticinese è sempre stato una zona di edilizia per gli emigranti, con le sue case di ringhiera a basso costo, i suoi bar dei bassifondi, le sue prostitute e la sua piccola malavita, nota con il nome di ligera. Qui per centinaia di anni aveva funzionato uno straordinario porto urbano. C’erano luoghi dove la gente si poteva nascondere dalla polizia, e altri in cui poteva imboscare merci rubate. Una parte dei Navigli era nota come la Casbah. Era la zona malfamata di Milano, ma anche il fulcro di una certa controcultura urbana. Artisti, anticonformisti, musicisti e scrittori frequentavano i Navigli. L’aria era fitta di fumo di sigarette. Scorrevano fiumi di alcol, fino a notte fonda.

Il porto fallì negli anni Settanta e, subito dopo, questa zona della città (che era anche una città in sé e per sé) diventò la sede di una serie di sezioni di partito e spazi di opposizione. La galassia politica dell’estrema sinistra aprì bottega lì e frequentava i bar e le osterie e le trattorie del quartiere. Giuseppe Pinelli fu arrestato da Luigi Calabresi in via Scaldasole, nelle sale in cui si stava allestendo un centro anarchico, la sera del 12 dicembre 1969. Seguì la macchina della polizia fino alla questura con il suo motorino. Naturalmente, fu il suo ultimo viaggio. Pinelli era nato nella zona del Ticinese, nel 1928.

Nel 1971 Primo Moroni arrivò in zona Ticinese. In quel decennio, il quartiere era diventato la sede di Lotta Continua, Avanguardia Operaia e di svariati gruppi femministi e circoli. La libreria di Moroni si trasferì nei paraggi. Per un caso fortunato andò a finire in vicolo Calusca, una stradina piccola e quasi nascosta. Il vicolo era un luogo dove una volta bazzicava il lôcch della zona (un termine usato per indicare i ladruncoli). Molti abitanti della zona lo chiamavano il «vicolo dei Nani», nome a quanto pare legato ai parenti dei nani che lavoravano alla corte degli Sforza. Quale che fosse la verità, non era certo la Milano dei ricchi e dei benestanti.

E poi arrivarono gli anni Ottanta. La Milano da bere. Il cuore di quella nuova idea di città, con la sua immagine spumeggiante, era la zona dei canali. I partiti chiusero le loro sedi, cambiarono nome o si trasferirono. La maggior parte cessò di esistere, tout court. Le case di ringhiera vennero rimodernate e diventarono chic. La ligera scomparve, per essere sostituita dalla ’Ndrangheta e dalla Camorra. Aprirono centinaia di bar, mentre quelli più vecchi, e le osterie buie e fumose, chiusero baracca. La sera si trasformò in una battaglia costante per trovare un parcheggio. Il traffico diventò il problema principale per i residenti della zona. Enormi barconi (che una volta facevano parte del porto, quando funzionava) furono riadattati come ristoranti galleggianti. Emerse una nuova «popolazione»: il popolo dell’happy hour, dell’aperitivo, dell’evento, della movida milanese.

Quella popolazione è stata creata dalla nuova base industriale della città. Negli anni Ottanta, ormai, la classe operaia era già scomparsa dal paesaggio urbano. Le fabbriche di Milano erano diventate showroom, musei, magazzini, o (nel peggiore dei casi) alloggio di emergenza per gli immigrati alla disperata ricerca di un riparo. Gli orologi resistevano ancora agli angoli delle strade, ma erano reliquie di un’epoca passata. Non c’erano più sirene, i cancelli delle fabbriche arrugginivano in preda all’abbandono. I milanesi (acquisiti e non) lavoravano nel design, nella moda, aspettavano che si svolgessero degli eventi e poi vi partecipavano. Nel 1987, a Milano c’erano 800 dj, 1.200 truccatori e 4.700 doppiatori.

Nel suo Vivere a sinistra, Emina Cevro Vukovic, nel 1976, scrisse che la Libreria Calusca era il «punto di riferimento dei non organizzati, dei cani sciolti, di quest’area indefinibile che va dai bordighisti, ai protosituazionisti, ai consiliari, agli internazionalisti, agli anarchici, agli anarco-comunisti, ai comunisti libertari». Questo è il motivo per cui era un luogo così interessante, e perché è così strano che un posto così sia sopravvissuto per tanto tempo nel Ticinese degli anni Novanta e Duemila. Fino a pochi giorni fa, cioè.

Milano per anni è stata un laboratorio del cambiamento, un sito dinamico di sperimentazione e di controcultura, persino negli anni Ottanta, e anche durante i Novanta. Quel ruolo ora è in gran parte relegato nel passato, è una storia raccontata in un archivio enorme ed eclettico che è in pericolo. Oggi, il Ticinese è simboleggiato dall’orribile parcheggio in costruzione sotto la Darsena. Né più, né meno. L’idea surreale che Milano abbia bisogno di un altro gigantesco parcheggio sotterraneo è perfettamente in sintonia con quelli che governano Milano, e anche con chi attualmente vive e lavora in città. Forse è un bene che Primo Moroni – rivoluzionario, libraio, storico, ballerino, archivista – non sia vissuto abbastanza a lungo per vederla realizzata.

Traduzione di Anna Mioni

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