Sciopero sociale generale: emozioni, immaginari, conflitto
Parlare alle emozioni, costruire l’immaginario, praticare il conflitto, cambiare il mondo: un racconto, parziale e soggettivo, di come lo sciopero sociale generale ieri ha attraversato Milano in forme diverse e per certi versi inaspettate.
Era bella ieri la mia città. Si è svegliata all’alba per bloccare i cantieri di Expo, a segnalare come il dispositivo del grande evento, fatto di gestione commissariale e lavoro precario, sia esattamente in linea con le scelte del governo in tema di riforma del lavoro e politiche economiche.
Ostinata e tenace la mia città di prima mattina, che cerca di piegare la logica del linguaggio alla pratica del conflitto, e allora l’uso disinvolto della forma transitiva di “Scioperiamo Expo” segnala come il pur doveroso sciopero sia troppo poco di fronte a un presente che è esattamente quello rappresentato da Expo: debito, cemento, precarietà, gestione mafiosa dei soldi pubblici, spartizioni, corruzione…
Ci prova, la mia città, a costruire nuove forme di protagonismo collettivo, nuove reti a maglie variabili, a inceppare il meccanismo del presente e del futuro che ci hanno costruito.
Era bella ieri la mia città anche un paio d’ore dopo, davanti alle fabbriche e alle aziende della periferia e della provincia, al freddo, con poche facce che entrano a lavorare, gli occhi che quasi si scusano, che proprio non me la sento. Che ancora non me la sento. Bella, la mia città, con quella quantità di gente che sale dalle scale della metropolitana e secondo tradizione si dispone ad attraversare la città, con le bandiere, gli striscioni, i fischietti e qua e là perfino qualche petardo che fa sobbalzare i più e sorridere qualcuno che ci sente il risveglio di una passeggiata intorpidita.
Bella piazza del Duomo piena di 50mila lavoratori che, nella difficoltà di stipendi sempre più magri, rinunciano a una giornata di paga per ritrovarsi insieme in piazza. Insieme contro chi vorrebbe la libertà di licenziare, ricattare, sottopagare. Insieme a segnalare una precisa scelta di campo dalla parte dei diritti, della libertà e dell’uguaglianza. Insieme a combattere le mille solitudini in cui li vorrebbero relegati e rassegnati. Insieme, per provare a scrivere un capitolo nuovo della propria storia collettiva.
Era bella ieri alle 9 e mezza piazza Cairoli, dove migliaia di studenti arrivano da tutte le parti della città in decine di cortei improvvisati dai punti d ritrovo per unirsi in un fiume che attraversa il centro contro il Jobs Act e la Buona Scuola, contro la precarietà e il lavoro volontario, contro Expo e le grandi opere, per il diritto allo studio, al welfare, alla città.
Protesta compatta, determinata e multiforme, che segna, al consolato Turco, la solidarietà con la resistenza del popolo di Kobane, riscrive in piazza Fontana la lapide a Pinelli, “ucciso innocente”, ricorda con una corona Saverio Saltarelli, studente ucciso dalla polizia il 12 dicembre 1970, restituisce alla Regione il “pacco” natalizio dei tagli alla scuola. E prende cariche, manganellate e lacrimogeni, perché in questo Paese ogni protesta viene trasformata in problema di ordine pubblico, perché se manifesti di questi tempi devi essere pronto a prenderle. Ma per fortuna sono pronti anche a reagire, e allora si prosegue insieme e si fa assemblea, perché domani si ricomincia, e bisogna organizzarsi.
Era bella la mia città ieri pomeriggio in via Sant’Abbondio, dove il quartiere si è ritrovato per lo sciopero al contrario: oltre a incrociare le braccia, ci si rimbocca le maniche per costruire insieme una realtà diversa. A partire dalla periferia, e da un parcheggio abbandonato e degradato che grazie all’aiuto di tutti viene ripulito e sistemato per diventare spazio di socialità aperto a chiunque voglia costruire insieme la propria comunità.
Era bella ieri la mia città, che, a 45 anni dalla strage di piazza Fontana, non dimentica, neanche per un attimo, che non è un giorno qualsiasi: in ogni testa, corteo, presidio, iniziativa, ieri era il 12 dicembre.
Era bella ieri la mia città, attraversata da un fermento che dalle vertenze sindacali tracima, e prova a parlare di universalità dei diritti, a transitare dalla fabbrica alla metropoli, a camminare sul confine sempre più sottile fra vita e lavoro.
Lo sciopero sociale generale ci ha portato in piazza tutti.
Ognuno nella sua piazza, con i suoi compagni, i suoi strumenti, i suoi linguaggi, i suoi immaginari.
Che il sindacato lo voglia o no, che sia pronto o no, il mondo è cambiato, e con esso il lavoro, le sue forme, le sue relazioni, il suo significato. E, pena condannarci tutti alla sconfitta sicura, non dobbiamo e non possiamo scegliere se stare nel campo della difesa dei diritti dei lavoratori dipendenti o in quello della costruzione delle tutele per chi è precario, intermittente e discontinuo. Non c’è da scegliere fra la vertenza sindacale e l’universalità dei diritti.
C’è da costruire un nuovo immaginario collettivo, un nuovo linguaggio capace, prima di tutto, di una narrazione del reale in tutte le sue facce, che sappia parlare di lavoro e di città, di welfare e di reddito, di territorio, di ambiente, di giustizia sociale.
C’è da immaginare forme e strumenti nuovi.
E c’è da mettere in campo una nuova pratica del conflitto. Includente. Radicale. Intelligente. Ambiziosa.
Che sappia trovare parole e piazze per ogni specifica singolarità e per tutti.
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