Un caffè a San Vittore

s.vittore.martire.in.africaQuesto è un racconto di un soggiorno a San Vittore dovuto a misure di custodia cautelare decise dalla Procura di Torino nel Gennaio 2012.

L’operazione è quella che ha portato in carcere molte altre persone in giro per l’Italia e per cui è ancora in corso un processo. La mente è la stessa che tiene in carcere ancora quattro ragazzi con accuse deliranti e occupa militarmente una valle intera.

72 giorni di detenzione. Il racconto è storia vera. Tutto vissuto e visto. Non ha nessuna pretesa se non di essere quello che è: un’esperienza parziale e personale. I nomi, ovviamente, sono tutti cambiati per rispetto ai compagni di prigionia. Con alcuni dei quali è rimasto un rapporto di amicizia epistolare intenso.

A loro e a tutti i detenuti seppelliti nelle carceri italiane va il mio pensiero.

Amnistia!

– Prendi su qualcosa che adesso andiamo in Questura e poi a San Vittore, un paio di giorni ma vedrai che il magistrato ti farà uscire al primo riesame. – ora ti portiamo via. Sappiamo che sei un bravo ragazzo, mi assicuri che non c’è bisogno di metterti le manette? – e dove volete che vada?

In giro sulla volante per Milano. Fatebenefratelli.

Di nuovo in macchina, io in mezzo a due poliziotti. Discutono sulle vie: – ma che strada stai facendo? Di qui non si può! -ma son tutti sensi unici, facciamo un giro largo- il poliziotto alla guida si gira verso di me -tanto non hai fretta di entrare, no?- e ride, cazzo ride..

Il cancello si apre. Mi portano alla registrazione. Non so perchè ma non faccio altro che pensare al film “Blues Brothers”, la scena iniziale, quando Jake esce di galera: la linea per terra, entro cui devo firmare il verbale, le foto segnaletiche. Il pensiero mi fa sorridere.

Poi la cella d’attesa insieme agli altri arrestati.

La perquisizione: nudo davanti a un muro, spalle al poliziotto a fare piegamenti sulle gambe. Sporcizia e squallore. La consegna della dotazione: coperta, cuscino, delle mutande, un bagno schiuma, un bicchiere di plastica.

 I corridoi. Terzo piano, le celle. Cella 317, sull’uscio una domanda, ingenua: ma come fanno a starci sei persone qui dentro? Poi l’accoglienza. -Non ti preoccupare tu guarda noi come facciamo, la prima settimana sei come un ospite. Poi impari. -ma che sei? No tav? No global? Leoncavallino? Quelli che fan casino con la polizia? Bravi! Abbiam visto! Minchia quante botte! -eh, sì, più o meno..-

Neanche un giorno e: -prendi la tua roba: trasferimento. -e dove? -primo piano.

Cella B14 lato “B”. AS, alta sorveglianza. Cella di stranieri. Miseria e abbandono. Un solo sgabello per sei. Nessun fornelletto, nessuna pentola, nessuna caffettiera, neanche un piatto. Si mangia solo vitto della galera a turno e negli stessi recipienti, che neanche gli animali.. Fumano tutti. E devo alzare la voce per farmi rispettare e limitare le sigarette al cesso o al blindo. Umidità e sporcizia che pare Calcutta. Afrori indescrivibili. Le docce a Gennaio con le finestre rotte e il gelo che entra. Febbre a quaranta.

Una settimana in questa porcilaia. Che poi siamo a cinquanta metri dalla zona bene di Milano ma sembra un altro continente. E una domanda: ma io che cazzo ci faccio qui dentro?

Una settimana: -prendi la tua roba: trasferimento.

Terzo raggio, piano terra. Respiro. Qui è un po’ più umano. Anche la frequentazione si alza di livello, colletti bianchi e camicie, perché qui ci mettono i politici e la gente “importante”. Celle aperte tutto il giorno. Due notti.

Quarto giorno: -prendi la tua roba: trasferimento – ancora? -torni al sesto.

Visita in infermeria. Al terzo trasferimento mi aspetta di nuovo la visita come nuovo giunto. La dottoressa fa le domande senza neanche guardarmi in faccia. Ripeto le stesse risposte delle altre due volte. -è tornato al VI raggio, vedo. -sì. -perché l’hanno trasferita? -non è a me che lo deve chiedere. Comunque nella cella al lato B si stava di schifo. -perché gli altri invece stanno bene.. -del suo sarcasmo non so cosa farmene. abbiamo finito? Con questo scherzetto mi sono giocato l’ora d’aria!- sbatto la porta e me ne vado. Sento la dottoressa alzare la voce. Arrivo davanti al blindo. Aspetto che mi aprano. Tempo un’ora e mi chiamano dal capoposto. -entra! no, non lì sulla porta, mettiti spalle al muro. Che ti possiamo vedere bene- loro si mettono dall’altro lato della scrivania. Sono in cinque. Quasi tutte le guardie di turno sul piano. -cosa è successo oggi? – quando? -con la dottoressa! -niente! Le ho fatto solo notare che per quella visita inutile ho perso l’ora d’aria. -dove pensi di essere? Tu hai capito che qua non conti un cazzo? Che qua non sei nessuno? -ho capito che il coltello dalla parte del manico ce l’avete voi. -questo è solo un avvertimento. Non fare più cazzate!-

Incrocio Salvatore, il bibliotecario, un veterano. Ha capito tutto: -lasciali perdere! Non rispondere alle loro provocazioni. Sii educato. Chiamali assistente, appuntato, mi scusi, per favore. Ma non dargli confidenze. Non devi mai mostrargli che sei incazzato. Loro ci godono. Quando li chiami dal blindo è inutile ripetere mille volte, loro lo fanno apposta a non venire e allora tu ripeti ogni tanto. Loro sanno che devi andare ai colloqui, dall’avvocato, loro sanno tutto. E devono aprirti. E ricordati che sono loro i veri detenuti, noi, un giorno o l’altro ce ne andremo da ‘sto posto di merda. Loro ci vivono qui dentro, ci lavorano qui dentro. Hai capito? -va bene, ho capito.

Una sera un marocchino del lato B si lamentava in continuazione. All’ennesima chiamata per andare in infermeria è partita una squadretta di guardie. Li ho visti passare mettendosi i guanti. Un attimo dopo c’era il marocchino che faceva a calci e pugni in corridoio. Si buttava a terra per cercare di fermare quella tempesta di botte -ho capito! Basta! Basta! Pietà!- E lo hanno trascinato per la camicia verso l’infermeria. Qualcuno dalle celle ha provato a dire qualcosa ma ha ricevuto solo minacce dagli agenti.

 Sesto raggio, di nuovo ai bassifondi. Cella 123. piano terra. Compagnia scalcagnata ma tanta simpatia e umanità. Rapinatori, ladri, banditi e omicidi. Pasta al pomodoro a pranzo e cena, che non ci son tanti soldi per fare la spesa. Caffè, giocare a carte e televisione sempre accesa. Abitudine. Disciplina per non soccombere. Disciplina, cioè nient’altro che regolarità. Ripetere tutti i giorni gli stessi precisi gesti. Sveglia alle sette prima degli altri per avere il cesso libero. E anche il corpo si adatta. Partecipare alla vita di cella. Pulire e organizzare la spesa.

Preparare il caffè per la cella è buona educazione.

 Ore 9. ora d’aria.. proviamo a respirare e guardare il cielo. -E pensare che qui fuori, a pochi metri, ci son passato migliaia di volte. Camminare a ritmo sostenuto. In cerchio. Sfogare. Scaricare. Qualcuno si unisce sempre per chiacchierare. Prima mezzora poi torno per fare la doccia.

Docce. Secondi contati per non rimanere incastrato in cella. Doccia bollente. In mutande, perché non si sta mai nudi.

Poi secchio pieno d’acqua calda per lavare la cella. Che in cella solo acqua fredda.

Pulizia che diventa un’ossessione. Tutto è troppo sporco, squallido. Non mi faranno mai marcire anche a me. Io resterò pulito.

Unisci i tavoli. Sistema gli sgabelli sopra. Poi tutte le borse da sotto le brande. Libera il pavimento. Scopa bene. Cazzo, abbiamo lavato ieri come cazzo fa a essere così sporco. Tutti i giorni è così. Scopa e ramazza. Non si asciuga mai. Non passa un cazzo di filo d’aria in sta cella di merda. Passa al cesso. La turca viene tappata per inondare dello scarico tutto il cesso. Detersivo e scopa e sfrega bene. Anche le piastrelle attorno alla turca. Tutte. Ben pulite. Tutti i giorni. Cazzo però si deve asciugare sennò non riusciamo più a cucinare. I panni di Beppe son stesi da tre giorni, in mezzo ai coglioni, -cazzo Beppe, non puoi lavarti i vestiti tutti i giorni porca troia!- cazzo quanto è umida sta cella. Ci credo che non si asciuga mai. – va bene, lo so, non vuoi far fare tutto alla tua famiglia, hai ragione, però strizza meglio ‘sti pantaloni-

Finito. Ora deve solo asciugare. Faccio un caffè, – qualcuno lo vuole?

Evito di camminare per non sporcare. Sennò diventa uno schifo.

 Ore 11,30. passa il pranzo. -passami le scodelle! Cosa c’è oggi? – pasta, bastoncini di pesce e insalata – minchia che schifo, va beh, dammi la pasta che la saltiamo in padella. Tanto non mangiamo mica adesso.

-Dammi le ricotte che facciamo una torta. E anche le uova.

La spesa non è ancora arrivata, cazzo. Non abbiamo il sale -spesino?! Vieni un attimo alla 123! fammi un favore vai alla 108, chiedi al Walter se ci passa un po’ di sale. -ok, arrivo.

-accendi che c’è il telegiornale. Magari parlano di amnistia. Vedrai che la fanno -figurati! – no guarda me l’ha detto Antonio che Pannella sta facendo uno sciopero della fame! – e quando è che non ne ha fatti!? -Vedrai che adesso la fanno, non possono non farla! Guarda in che schifo siamo?!! -non illudetevi..

Dal corridoio: – aaassistenteee!!! B-ddodici!!! insulina!!! –

due minuti dopo: – aaasssisstente!!!! B-ddodici!!! insulina!!!

cinque minuti dopo: – aasssisstenteee!!! B-ddodici!!! insulina!!!

dieci minuti dopo: – aaassistenteeee!!! B-ddodici!!! insulina!!!

-cazzo quello è Carmelo, il sessantenne della B-dodici che è diabetico, tutti i giorni è così, chiama per andare in infermeria e prendere l’insulina prima di pranzo e deve chiamare almeno dieci volte. e pensare che lo sanno, è qua da otto mesi e devono aprire la cella loro. – ma ‘ste merde di guardie se ne fottono – eppoi oggi c’è il “tedesco” come capoposto. Chille è ‘nu fetente proprio..

 ore 12, -Angelo dai dammi una mano che cuciniamo. Pasta saltata? – sì, buttaci un po’ di peperoncino. Tanto poi domani è giorno di colloqui e mi arriva la ‘nduja e un sacco di cose dal paese mio e si fa festa!-

Io e Angelo in cucina. Beppe fa la tavola, Filippo, Fiorellino e Donato stanno a letto. Quando è pronta la tavola scendono. Brindiamo con la coca cola dato che qui non passano alcolici. -mentre a Poggioreale danno anche il vino! Eh si, lì c’è più autocontrollo da parte dei detenuti..- dice Filippo, raccontando storie di galera. Tutti a tavola come una famiglia.

Forse i momenti più sereni.

 Ore 13, -ariaaa!- rumore di chiavi – ariaaa!! esco, mi unisco al fiume intabarrato nei cappotti che si accalca alla porticina delle scale per il cortile. Siamo i primi, quelli del quarto piano arrivano poco dopo. Becco Pietro. Camminiamo insieme. In cerchio. Intanto i calabresi si riuniscono in mezzo al cortile. È tutta una cerimonia: baci e strette di mano che sembra un film di Scorsese. Arrivano anche Enzo e Carminello, li andiamo a salutare. Ma oggi il cortile è quello piccolo e a camminare come i calabresi avanti e indietro non c’è spazio. Quindi torniamo al nostro passeggio in stile pellegrinaggio della mecca. Che gira un po’ la testa a camminare in cerchio ma cammini qualche passo in più.

Dopo la prima ora di sfogo ci fermiamo. Si avvicina Abdul della 106, marocchino che sembra un armadio. Parliamo del Milan, anche se lui è juventino. Poi anche Pedro, un equadoregno di una gang. Non so quale, 18, ms13, ma tu di quale sei?- Si gira e mostra un diciotto enorme tatuato sulla schiena. Cicatrici in faccia e un occhio in meno. Un pazzo. Strano perché quelli li son tutti ragazzini. Li vedi, pieni di tatuaggi ma sembrano bambini se li affianchi ai rumeni o a quelli dell’est, grossi e con le facce di ghiaccio.

Un pomeriggio all’ora d’aria ho visto gente mai vista. C’era tutta la cella del quarto piano di Pietro. Un loro nuovo concellino è un membro di una pandilla, un ragazzino di nome Manuel. Nel raggio ce ne sono un po’ di una banda rivale. Ieri lo hanno riconosciuto e hanno provato ad aggredirlo sulle scale al ritorno dal cortile. Oggi è scesa tutta la sua cella. In testa l’anziano, che poi in realtà è Sam, un ragazzo italiano di ventidue anni con un pedigree criminale di tutto rispetto. Ha chiamato il capetto della banda rivale, Morgan, e lo ha affrontato: -Manuel è nella nostra cella. Se toccate lui toccate tutti noi.- Il tizio ha abbassato lo sguardo. -e poi guarda dove siamo! Siamo tutti nella stessa barca! Fuori di qui ammazzatevi pure, non me ne frega niente. Ma qui no.- non hanno più infastidito Manuel, che tra l’altro era un ragazzino.

 In cortile ogni etnia sta per conto proprio. Italiani con italiani. Rumeni con rumeni. Albanesi con albanesi. Sudamericani con sudamericani. Marocchini con marocchini. Zingari con zingari.

Il Walter, un bandito rispettatissimo da tutti, l’unico accento milanese qui dentro, è uno di quelli che parla con tutti. È amico di marocchini e sudamericani. Non si fida di quelli dell’est. – quelli fanno porcherie. Non dicono niente e poi scopri che hanno violentato una donna.- e infatti se ne stanno per i fatti loro.

Invece bella compagnia gli zingari. Fanno gruppo. Il capo è Drago. Sempre elegante, fisico asciutto, capelli lunghi neri e lisci raccolti in una coda e ghigno perenne con denti d’oro. Rispettati da tutta la malavita qui dentro.

Si formano piccoli gruppi di conversazione. Si parla solo di processi o di malavita. Dopo un po’ mi rompo il cazzo e riprendo a camminare con Ferruccio, uno zingaro italiano. Non sta con gli altri rom, è abruzzese e la sua famiglia ha sempre commerciato in cavalli, -fino a quando è arrivata la droga che ha rovinato tutto- dice. Però chiacchieriamo di libertà, di cavalli che corrono e di lunghe pianure. A chiudere gli occhi sembra quasi di uscire per un po’ da questi muri. Ossigeno.

Si unisce anche Simone. Nella vita è uno chef e campione di thai boxe. Ogni giorno discutiamo del menu serale: oggi cucina per la sua cella ravioli di magro fatti da lui, arrosto di vitello al limone e un dolce al cucchiaio con la panna. Non so come cazzo fa. So solo che ho chiesto il trasferimento nella cella sua e di Pietro ma me l’hanno negato. Sono in AS. Punto.

 L’altro giorno in cortile Pippo, un catanese che sta nella cella di fronte alla nostra, ha avvicinato me e Beppe. -avete un indegno in cella. O ci pensate voi o ci pensiamo noi-. E se ne è andato. -minchia.. non sarà mica il nuovo giunto? Quello arrivato dal reparto psichiatrico, Matteo? -Quello ci ha detto che ha ammazzato un suo amico! -O cazzo..

tornati in cella, in attesa che ‘sto Matteo torni dalla visita dallo psichiatra, decidiamo che deve andare via. Anche a costo di farci fare rapporto. Filippo, come anziano, chiama il capoposto: -appuntato! Ma che gente ci mettete in cella?! Eh?! Questo no!!

-hai ragione.. ora vedo che ci posso fare..

tornato in cella lo accerchiamo: -dicci cosa hai fatto.- in realtà lo avevamo già scoperto. Stupro e omicidio della sua ex-ragazza. Con sevizie. Roba da psichiatria criminale su una faccia da collegio San Carlo. -sì, l’ho fatto ma non ricordo niente, ero pieno di cocaina! -tu lo sai che qua non puoi stare, vero? -sì, lo so, ne ho già parlato con lo psichiatra, non voglio mettere nei casini nessuno.

Il resto del pomeriggio Pippo dall’altra cella lo passa attaccato al blindo a guardare la nostra cella. Ogni volta che qualcuno di noi incrocia il suo sguardo fa segni inequivocabili. Indica dentro la cella e si passa il dito sulla gola. Una faccia di ghiaccio. -minchia, ci mancava solo questa..

e un pensiero mi ritorna in mente.. ma io che cazzo ci faccio qui dentro?!?

il problema è che se non lo spostano la nostra cella è compromessa. E una volta che parte una bicicletta non la fermi più qui. Io non riesco neanche a guardare sto ragazzo che sembra un bambino perso e impaurito. Il che lo rende persino più inquietante, se possibile. Si siede anche a tavola con noi. E gli diamo da mangiare. Considerato come vengono trattati stupratori, magnaccia e pedofili qui dentro gli va pure bene. Ma io mi fermo qui. Tutto questo va troppo oltre le mie capacità di comprensione. Lo stupratore assassino e i potenziali vendicatori. Meno male che a sbloccare la situazione ci pensa la diplomazia. L’indomani mattina lo trasferiscono al secondo piano. Il settore degli indegni… ci sentiamo tutti più leggeri. E in cortile ritornano i sorrisi. Al suo posto è arrivato un trapanese beccato mentre stava bucando il muro di una banca. Riusciamo persino a ridere sulla sua disavventura alla ”soliti ignoti”.

Che cazzo di posto..

 Ore 15. aprono i cancelli e si ritorna in cella. Giusto il tempo di salutare tutti gli altri. Mi fermo davanti al blindo. In attesa che le guardie aprano. Entriamo. Alle spalle l’appuntato sbatte rudemente il blindo e sferragliando chiude a chiave. Un brivido corre lungo la schiena.

Fino a domani mattina non apriranno.

Cella silenziosa. Fra poco comincia lo zoo della tv. Rimangono un paio di ore da spendere in qualche modo. Provo a leggere coi tappi alle orecchie perché Filippo tiene la tv alta e commenta maria de filippi. Dopo un po’ rinuncio.

 Ore 16. chiamo Beppe e mi faccio dare una mano a fare una torta di mele. Anche se Angelo vuole il budino al cioccolato, chiede sempre quello, – ci credo, ci ha tre denti!- Sussurra Beppe sghignazzando.

Mescoliamo gli ingredienti, al posto del burro l’olio di semi e prepariamo il forno. Non usiamo l’armadietto come fanno tutti ma rovesciamo lo sgabello, ci posizioniamo il fornelletto dentro in modo che mettendoci la teglia non tocchi il fondo e una copertura con una padellona. Tutto poi ricoperto con degli asciugamani. Tre orette buone di cottura e il profumo invade la cella.

Giochiamo a carte. In sei sono tre coppie per lo scopone. Giriamo a turno. Filippo e Angelo sono imbattibili.

 Ore 18. -posta!- la guardia chiama tutti. Sono quello che ne riceve di più. Apre ogni busta e controlla il contenuto. Sono emozionato a intravedere il mittente. Aspetto la lettera del mio amore.

Mi prendo un po’ di tempo per me, salgo in branda e leggo tutta la corrispondenza. È un momento di intimità in cui ognuno pensa a sé, ai suoi familiari e al mondo che c’è fuori. Beppe vuole condividere la lettera di sua sorella, sale in branda da me e me la legge tutto emozionato. Parole sgrammaticate e ricche di dialetti del sud. Ingenue e feroci. Umane.

Angelo invece ha ricevuto una lettera di una sua amica, mi chiama, le nostre brande sono vicine e mi chiede di scrivere per lui. Mi sussurra, contento: – questa è una mia “amica”, hai capito? Devo scrivere qualcosa di carino. Scrivi tu per favore che sei bravo! – va bene, ma fammi capire cosa vuoi dirle!-

L’altra settimana era stato chiamato per un interrogatorio. Era tornato scuro in volto. Un bandito che sembra uscito dai film di Sergio Leone. Un viso antico, baffoni, pelle ruvida e occhi azzurrissimi. Un figlio in carcere a Cuneo. Mi aveva chiamato: -dammi una mano a scrivere. Devo avvertire un amico. -va bene. Non faccio domande. -carissimo Giovanni, sono Angelo, ti scrivo perché devi fare attenzione ai falsi amici, specialmente a Gigi del bar che è un infame. Saluta tutti. Angelo. – telegrafico.

 Carrellino dell’infermeria. Medicine. Psicofarmaci a valanga. Cella dopo cella l’infermiera distribuisce le pozioni di calmanti. Sono in difficoltà. Tutto è troppo claustrofobico, soffocante. Faccio fatica. Ho bisogno di rilassarmi un po’. Solamente qualche giorno. Dieci gocce di xanax. C’è chi lo prende per sopportare la situazione e chi lo sfrutta per essere spostato in settori più umani. Il terzo raggio. Tossicodipendenti. La malavita pare che storca il naso. Ma alla maggioranza non gliene frega un cazzo..

Un aiuto, forse l’unico, che il carcere somministra con interessata e pericolosa generosità. – poi chissà che cazzo mettono dentro alle medicine. Già è meglio non bere il latte, lo sanno tutti che ci mettono dentro il bromuro – le medicine son medicine – si ma lo vedevi Marco, quel ragazzo di Baggio, quando stava qua? Tutto il giorno a letto, pareva uno zombie! – e ci credo! Ne prendeva quaranta di gocce! E infatti lo hanno spostato al terzo: era un tossico!

Qualche giorno. Ho solo bisogno di qualche giorno da tenere sotto controllo.

Il carrellino prosegue. Cella dopo cella.

Ore 19. cena. Oggi ha cucinato Filippo. Poco prima di mangiare, come tutti i giorni tre volte al giorno, è andato a farsi l’insulina. Prima di entrare ci chiama: – in infermeria è una stalla, passami un po’ di pane, qualche mandarino e i wurstel che glieli porto, non gli hanno dato da mangiare! Sono accatastati in otto!- si fa passare il cibo dal blindo e torna in infermeria. Sessantanni da fuorilegge, trentadue collezionati girando per le carceri italiane. Mai un giorno di lavoro regolare. Cinque matrimoni. Figli sparsi per il continente. L’ultima moglie, una nigeriana, è a Regina Coeli. Si scrivono.

Stasera ha cucinato pasta al forno. Ci sediamo a tavola.

 Ore 20. pulizia. I giovani sparecchiano, gli anziani sono già a letto. Gli ultimi telegiornali e poi vedremo un film. Io e Beppe laviamo i piatti e la cucina, cioè il cesso. Due volte al giorno. Una guerra di quartiere contro le muffe e l’umidità dei muri gialli e sporchi. Adesso che è ancora inverno lo spazio della finestrella del cesso, sopra la turca è il nostro frigo. Volendo ci sarebbe il frigo del raggio dove mettere i surgelati. Riecheggiano risate dal corridoio, guardano tutti “paperissima” alla tv. Mentre laviamo i piatti Beppe sussurra per non farsi sentire: -hai visto che Filippo si è finito la ricotta senza dire niente? Quello si alza di notte e mangia come un elefante! -e chi se ne frega! – non si fa così! Anche Pippo il catanese si è litigato con lui perché è un pezzente che si ruba il cibo degli altri. E infatti ha cambiato di cella.

Ore 21. film. La nostra regola dice che si spegne la luce e si guarda il film. Dalla branda ho la mia postazione per una perfetta visione. Oggi son passati per la battitura, hanno spostato le brande e aperto la finestra. Io e Beppe abbiamo riattaccato pezzo per pezzo tutta l’inteialatura di stoffa per isolare dagli spifferi. Un lavoraccio. Il film è finito. Dormono quasi tutti e si capisce dal russare sinfonico. Passo il telecomando a Beppe che è ancora sveglio -abbassa il volume -che cosa metto? -scegli tu, io mi metto a dormire. Tappi alle orecchie e mi giro.

Mi sveglio alle cinque del mattino. Mancano ancora quattro ore all’apertura del blindo, all’ora d’aria. Merda.. L’ultima settimana è stata così. Occhi sbarrati nel cuore della notte. Al cesso c’è Filippo che legge, scrive e mangia. Non c’è spazio. Vorrei camminare correre sbracciarmi saltare urlare. Respirare a pieni polmoni. Niente. Non c’è spazio. La porta è chiusa. Il blindo è sbarrato. Tocca aspettare. Aspettare. Torno a letto. Penso. Mi concentro su pensieri belli e leggeri. Ma sono ancora in attesa del riesame. Chissà se mi mandano a casa a sto giro.. non farti illusioni. L’altra volta è stata una mazzata. La mente si avvita senza ritorno. I muri si fanno più stretti. Pesanti. Conto le zanzare schiacciate chissà quando sul soffitto.. Mi rigiro nella branda. Forse cambiando posizione trovo un po’ di sollievo. Riprendo fiato. La luce del corridoio penetra attraverso il blindo. Silenzio. Solo respiri pesanti. Fuori è buio. Mi ripeto che devo solo aspettare. Aspettare. Cerco di annullare il pensiero pensando a una catena di movimenti ripetuta a memoria in palestra. Mi ci perdo. Forse è il vuoto. Forse è solo un’ancora di salvezza. Mi annullo in questo pensiero. Passano due ore e ricomincia la giornata. I momenti più difficili son passati.

Ore 7. mi alzo dal letto. Filippo ora sta dormendo in branda. Io faccio le mie cose, mi lavo e preparo il caffè. Anche Angelo è sveglio. È già davanti al blindo ad aspettare lo spesino. Arance e pane. Poi arriva il caffè e il latte. Colazione per tutti. Poco alla volta si risveglia tutta la cella.

Manca poco.

Ore 9. ora d’aria. Arrivo a passo svelto, scarpe da ginnastica e tuta. Oggi cortile grande e si può correre. A Febbraio eravamo in pochissimi. Io e un altro calabrese. Bisognava fare attenzione al ghiaccio che non si scioglieva mai. Ora siamo in tanti. Sembriamo una squadra di calcio. Tutti allo stesso ritmo. Correre. Orologio alla mano 25 minuti. Che bello. Sudo e respiro. Respiro e sudo.

Riaprono per la mezzora. Torno in cella, oramai è studiata al minuto. Riesco a farmi la doccia e recuperare l’acqua per lavare la cella. Lo scrivano mi ha appena consegnato il bigliettino: colloquio con l’avvocato. Chissà che cazzo deve dirmi. Anche Beppe ce l’ha. Ci prepariamo in attesa della chiamata che può arrivare in qualsiasi momento. Due ore e ancora nessuna voce. Chiamiamo: -assistente!! 123!! avvocato!!!- una due tre quattro volte. Nessuna risposta. Sferragliare di chiavi. Arrivano. Cammino col biglietto in mano fino alla rotonda. Attesa. Una guardia mi apre. Incrocio Nicolas, conosciuto al terzo raggio -colloquio? -no, avvocato! -dai, speriamo che porti buone notizie! -già. Salutami Gigi mi raccomando- altro cancello, corridoio del primo raggio. Fermo prima delle scale che portano alla sala colloqui. Bigliettino. Proseguo. Busso al blindo: -colloquio con l’avvocato!- Apre e mi fa entrare in un’altra cella d’attesa. Richiude il blindo. Attesa. Attesa. Un’ora e non succede niente. Attesa. Un’altra mezzora. – ma scusate, perché mi chiamate se non è ancora arrivato? – cosa ti cambia stare qui o nella tua cella? Sempre cella è! -già.- Le panche sono piene di ragazzi, uomini di tutte le razze con plichi di fogli in mano. Qualcuno batte nervosamente i piedi a terra. Qualcuno tenta di sonnecchiare. Altri accennano a chiacchierare. A ognuno il suo carico di tensione. L’odio per la Legge vergato sui muri.

Colloquio: il tribunale del riesame ha negato la scarcerazione. Neanche il tempo per digerire la notizia che arriva un urlo disumano da un’altra sala. Le guardie accorrono. Riesco a richiamarne una: -cosa è successo? -l’avvocato ha dato la notizia a uno del terzo che è morta sua figlia- arrivano gli infermieri. Il pianto disperato poco a poco si affievolisce in un lamento. La prigione diventa Prigione.

Mi guardo con mio fratello, che in quanto avvocato può venire a trovarmi più spesso. Non ci sono parole. Riusciamo ad abbracciarci. -tranquillo, me la cavo, non vi dovete preoccupare. Per favore, voi fuori non dovete preoccuparvi. Non posso stare tranquillo qui dentro se so che voi fuori state male, d’accordo? Io qui ce la faccio. Con i concellini ci si aiuta. Ho trovato un equilibrio. Riesco a fare le mie cose, anche a studiare. Dai un bacio alla mamma e al papà. Dì a Carlotta che la amo-

Colloquio finito. Fermo. Blindo. Apre e chiude. Corridoio. Cancello. Apre e chiude. Rotonda. Cancello. Apre e chiude. Corridoio. Blindo. Fermo. Guardia. Chiavi. Apre-entro-chiude.

-come è andata? Che t’ha detto l’avvocato?

-il riesame è andato male

-bastardi.. dai, beviti ‘sto caffè.

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Una risposta a “Un caffè a San Vittore”

  1. […] anche solo un’antipatia) o ancora peggio i movimenti sociali, i cui militanti affollano le (pessime) carceri in attesa di giudizi già scritti, quando non già condannati, processati per terrorismo […]

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