LA NARRAZIONE MANCANTE: la produzione culturale indipendente nei centri sociali
Sono davvero contenta dello spazio di riflessione che si è aperto sul tema dell’immaginario e della produzione (contro)culturale all’interno dei nostri spazi. Sono contenta perché, come sempre, confrontarsi e far circolare stimoli di compagni e compagne che provengono da realtà differenti è una ricchezza che talvolta dimentichiamo.
Non parlerò dell’ambiente musicale e della programmazione di serate tout court, ma vorrei provare ad aprire il ragionamento fuori da questo ambito specifico, perché altrimenti rischiamo di ridurre tutto al racconto delle specificità singolari dei nostri centri sociali.
È evidente la presenza di gruppi musicali vicini alla nostra sensibilità e alle nostre parole che non sono nati all’interno dei nostri spazi, ma magari accanto ad essi. Questo non è, per me, un dato negativo in assoluto: dimostra che, pur non nascendo dentro i centri sociali o nelle mobilitazioni, sono stati contaminati da idee vicine a chi fa politica nei movimenti, dimostrando dunque che c’è “un’area rosa” di sensibilizzazione che ancora è larga, che abbraccia soggetti che non fanno direttamente militanza e che sono poi apprezzati e ascoltati in tutto il Paese. Gli stessi soggetti, penso allo Stato Sociale, che prendono poi parola in battaglie che condividiamo sul territorio: a Bologna si è dato per il referendum sulla scuola pubblica del maggio scorso, ma non solo.
Allo stesso modo, concordo nel problematizzare un limite discorsivo intorno alla trash e alla sua diffusione nei nostri spazi: senza voler operare un’eccessiva significazione rispetto al fenomeno, penso sia una mancanza non provare a costruire un discorso intorno ad un’operazione musicale così quantitativamente significativa. Mi è capitato di trovarmi in serate trash organizzate in altri contesti (circoli Arci) e mi sono accorta immediatamente di alcune differenze evidenti nei pezzi scelti durante il dj set. Forse dovremmo interrogarci – dovrebbero farlo i nostri djs – sulle motivazioni e sulle scalette che propongono nei nostri spazi sociali.
Io credo che l’offerta culturale che i centri sociali mettono in campo sia notevole: una ricchezza per le città in cui si trovano.
Penso sia ridicolo sostenere che un centro sociale non possa far pagare più di cinque euro in virtù di uno status trascendentale: l’idea che ci muove, da sempre, è quella di legare qualità e indipendenza; livello tecnico e prezzi accessibili; professionalità e autorganizzazione. Per fare tutto questo, per occuparsi di produzione culturale, penso sia imprescindibile una conoscenza del territorio e del pubblico (vario) che lo abita, per poter proporre serate ed eventi fruibili e attraversati.
La domanda cruciale, che non possiamo eludere, ruota intorno all’identità degli spazi sociali: cosa sono i centri sociali oggi? In una realtà completamente mutata rispetto a quella in cui queste esperienze hanno cominciato a fiorire, come facciamo ad essere ancora anomalia e forza propulsiva anche sulla scena culturale?
Per una riflessione di lungo respiro ci dovremmo anche interrogare sul significato di “controcultura”, senza prenderlo come termine assiomatico, costituito. Come ben sappiamo e come insegnano anche tutti i movimenti controculturali della storia, anche ciò che è “contro” viene facilmente riassorbito nel mercato, pure in quello culturale. Tutti i movimenti e gli stili che hanno creato una rottura della norma sono ricatturati nell’industria musicale o della moda, senza colpo ferire. Senza voler giudicare negativamente queste esperienze, perché va riconosciuto che hanno rappresentato una possibilità, un’interferenza all’interno del sistema culturale, ma è necessario – per chi ha l’aspirazione di cambiare l’esistente – ammetterne la breve efficacia.
Ha senso oggi essere “contro”? Restare a guardare e difendere un posizionamento resistenziale rispetto alla produzione culturale, oppure – vista anche la crisi economica (che è ancor più ferocemente crisi del sistema culturale – depotenziato, massacrato, svilito, finanziarizzato, a partire dal mondo della formazione fino alle grandi istituzioni museali) dovremmo immaginare un’altra via? Un orizzonte più ampio per quella che chiamiamo produzione culturale indipendente?
Bologna, ma non credo sia l’unica realtà in Italia, è ricca di esperienze indipendenti: piccole gallerie d’arte, radio, studi di architetti, collettivi di artisti, vivai e gruppi legati al verde urbano, realtà che – in modi diversi – producono cultura. La sfida che possiamo cogliere, attraverso la forza e l’organizzazione dei nostri spazi, è di fare rete con i tanti progetti dal basso attorno ai quali si muove il lavoro vivo culturale delle nostre città, per esserne hub di incontro, dialogo e potenziamento.
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