Sull’occupazione del Varalli
Disarmati. Ci sentivamo così, oggi, mentre assistevamo a quel che stava succedendo fuori dalla scuola, la nostra scuola. Disarmati, senza parole, umiliati. Per un momento, per più momenti, ci siamo vergognati di andare al Varalli. Di frequentare e lavorare come collettivo in una scuola che porta il nome di un ragazzo antifascista ucciso mentre protestava, una scuola che nell’atrio che da sugli uffici ha una targa, che recita testuale “a Claudio Varalli – morto mentre lottava per i suoi diritti”. Disarmante vedere che in una scuola con un nome e un immaginario di questo genere alle spalle, un atto volto a urlare che la scuola, com’è oggi, non la vogliamo, sia stato di fatto represso. Già, da una minoranza (ben più risicata di quel che piace credere, ma ugualmente significativa) di quegli stessi studenti per cui 60 persone, ieri sera, si sono prese la briga di occupare.
I fatti. Per chi non ci fosse, per chi non ha visto, per chi ha sentito dire, quel che è successo si rifà ad una dinamica semplice tanto quanto in grado di lasciare esterrefatti persino gli agenti della DIGOS. Ovvero una vasta rappresentanza del corpo docenti che, sotto gli ordini e la guida di dei vicepresidi che hanno svolto il ruolo dei sergenti usando i colleghi (senz’alcun dubbio consenzienti) come soldatini, dalle prime luci dell’alba si è schierata davanti a ogni ingresso della scuola. Impedendo così a quella parte di studenti che avrebbe voluto entrare, aiutare il Collettivo e partecipare all’occupazione (comunque una minoranza, ma ben più significativa di quella dei “contrari”) di farlo. Togliendo loro la libertà di tornare a sentire la scuola come il loro luogo, di sostituire temporaneamente alle lezioni frontali – che nel mare di nozioni che (spesso non) lasciano dentro impediscono e soffocano lo sviluppo di uno spirito critico – forme di autogestione vera (e non simulata, come da sempre è quella che la Presidenza del Varalli “concede” come fosse un festival, un mero evento privo di qualsiasi significato, che quest’anno abbiamo voluto chiedere proprio nell’idea di metterla a confronto con quello che sarebbero stati i tre giorni d’occupazione).
Il tutto condito da accuse e insulti, sceneggiate da malattia mentale pura, da follia. Grida, spinte, minacce di ogni genere cominciate ieri sera con le mail – fatte firmare, con una codardia inaudita, dal Comitato Genitori – e proseguite oggi con lo sbarramento degli ingressi e le lavate di testa fatte a chiunque volesse entrare. Poi il resto, forse la storia più nota. Studenti come noi, studenti di questa scuola che sfondano porte, rompono vetri, tirano pugni e insultano ragazze del collettivo apostrofandole con vergognose frasi razziste. Centocinquanta, forse nemmeno, quasi tutti di quinta: persone che dimostrano quanto il Varalli avesse bisogno di una scossa, di aprirsi e mostrarsi agli studenti per quel che è. Ovvero il loro luogo, e non il semplice stagnante edificio in cui trascorrere cinque anni vedendo l’uscita dalla Maturità come un’irresistibile luce in fondo al tunnel. Chi ha agito in questa maniera, chi pur di mettere la sua necessità di fare lezione e “avere la Maturità da passare” davanti ad una protesta che nasceva con l’intento di favorire anche loro, è arrivato a fare danni che puntualmente vengono ora attribuiti agli occupanti, dimostra come e quanto le nozioni a cui queste persone sono state fatte attaccare in 5 anni di Varalli abbiano contribuito in maniera nulla allo sviluppo di uno spirito critico in loro che vada oltre la cura certosina del proprio orticello. La stessa dinamica, insomma, che riprodotta su larga scala fa dell’Italia il paese che è oggi.
Come Collettivo crediamo di dovere delle risposte. La risposta a chi ci ha chiesto, lecitamente, perché un’occupazione senza averla approvata, perché un’azione di pochi pretendesse di coinvolgere molti, diciamo: perché una votazione avrebbe conseguito l’impossibilità stessa di realizzare questa mobilitazione. Se solo grazie a voci da noi mai confermate ci siamo trovati, mercoledì sera, con una delegazione composta da Preside e Vicepresidi ad attenderci, e alla luce di come una larga parte del corpo docenti si sia oggi riscoperta appartenente alla categoria dei poliziotti anti-sommossa, ci chiediamo cosa sarebbe successo se avessimo davvero reso pubbliche e ufficiali le nostre intenzioni. Oggi, se ci fosse stato permesso come da accordi presi ieri sera, avremmo dovuto tenere un’assemblea al piano terra, già organizzata, in cui confrontarci e approvare l’occupazione. Non ci sarebbe stata altra scelta, proprio in virtù del prevedibile ostruzionismo del collegio docenti.
A chi ci chiede i motivi di tutto questo, rispondiamo che è uscito un comunicato pubblico che tutti possono leggere, e che chi si rifiuta di leggerlo non va nemmeno considerato come un possibile interlocutore a livello critico. E quindi, come qualcuno a cui noi si abbia una qualsiasi cosa da dire. A chi ci dice di aver danneggiato la scuola, rispondiamo senza scendere in dettagli che siamo comunque disposti ad approfondire che è una palese bufala. Che tutto ciò che abbiamo preso – ovvero le cattedre, necessarie a barricare il terzo e quarto piano e le chiavi, altrettanto necessarie ad aprire una scuola che ha una serratura ad ogni centimetro – era sotto il nostro controllo e nonostante oggi si abbia noi chiesto un tempo di venti minuti per sistemare tutto prima di uscire, a decisione presa siamo stati esortati ad uscire con minacce di ogni genere, molte comprendenti ricatti di carattere didattico (giusto per la cronaca: illegali e da denunciare immediatamente se subiti).
A chi ci chiede perché abbiamo mollato, rispondiamo che non potevamo fare altro. Che l’occupazione, come recita testualmente il comunicato con cui l’abbiamo lanciata, nasceva fra le altre cose con lo scopo di creare un “momento di autogestione in cui la scuola si riavvicinasse agli studenti, tornasse ad essere di chi la anima e la popola”. Coloro che avrebbero voluto mettersi in gioco in una simile esperienza sono stati vessati e spaventati dalle minacce di chi in ogni caso continua ad avere il coltello dalla parte del manico (i docenti). Non ce la sentiamo di biasimare chi oggi, dopo la minaccia di un 5 in condotta e di una denuncia se avesse provato anche solo a mettere un piede dentro la scuola, se l’è data a gambe. Ed ecco che così, chi invece ha provato ad entrare si è trovato costretto in una gabbia, circondato da leoni: qualcuno non ce l’ha fatta, non ha retto allo stress di trovarsi sotto la pressione di insegnanti e minacce di denuncia e studenti – quasi tutti più grandi – che con la violenza attribuita con una contraddizione vergognosa agli occupanti, proseguiva nel minacciare fisicamente e nel tentare di forzare le porte. Ma proseguire un’occupazione con 100 persone convinte, 150 scarse pronte a usare la violenza pur di fare lezione e la stragrande maggioranza restante equamente divisa fra chi era spaventato e chi semplicemente disinteressato non avrebbe avuto senso.
Chi oggi esce sconfitto da tutto questo non è il Collettivo, che ha invece ottenuto la gigantesca vittoria di costruire un’occupazione dopo due anni di esistenza e attività, quando fino a prima della sua nascita al Varalli nemmeno si sapeva cosa significasse fare politica. Chi esce sconfitta e ferita è una scuola che dimostra ancora una volta il grande problema di essere composta – in una percentuale che è arduo definire ma sarebbe, appunto, disarmante anche fosse bassissima e rappresentata esclusivamente da chi oggi ha usato la violenza per “fare lezione” – da studenti che hanno a cuore solo ed esclusivamente il loro interesse personale. Studenti che invece di catalizzare il loro rancore per farsi sentire e pretendere quel che spetta loro, per ribellarsi contro uno Stato che dovrebbe rappresentarli e invece tratta loro e il loro luogo di formazione come il salvadanaio da cui attingere per coprire i buchi, causati da una politica socio-economica che fa dell’interesse per l’individualità un credo, danno sfogo alla loro furia di fatto urlando il loro assenso ad essere trattati così. Il tutto per proteggere eslcusivamente il loro interesse, loro inteso come di ciascun singolo.
Esce sconfitto un corpo docenti che si improvvisa polizia, che bypassa le decisioni della DIGOS – unico organo competente in sede d’occupazione – e arriva a costringere la stessa polizia politica a chiedere agli occupanti di “star calmi” mentre loro cercano di fermare la furia imperante all’esterno, alimentata principalmente proprio dal comportamento dei docenti. Escono sconfitti coloro che in tutto questo, dopo che il Collettivo da 5 mesi lavora per creare un clima di attivismo all’interno della scuola, sono rimasti indifferenti. Escono invece vittoriosi quei 100 che sono rimasti fuori alla pioggia e al freddo, mettendo le facce pur di poter entrare e occupare con noi e guardando in faccia i professori che impedivano loro di entrare, correndo i rischi di essere riconosciuti e puniti. E proprio questa piccola quanto significativa vittoria ci fa dire che noi non ci fermiamo. Questa volta ci ha seguito il 10% della scuola, che oggi si è ritrovato poi a confrontarsi disertando l’ingresso in classe imposto con altrettante minacce dai docenti. Siamo pochi, è vero, ma siamo uniti. E insieme proseguiremo a far sentire la nostra voce, a lottare perché il nostro futuro possa non essere deciso in partenza da chi si interessa solo del proprio presente. Non ci arrendiamo.
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