1997-2017 vent’anni di Pacì Paciana: uno spunto di discussione
Pubblichiamo uno spunto di discussione per l’incontro che si svolgerà alle 17.00 di sabato 21 gennaio presso il c.s.a. Pacì Paciana, durante il quale verrà presentato Il Bandito: un bando per banditi.
USCIRE DAL PLEISTOCENE
Vent’anni possono essere un’era geologica.
Relazioni e strutture sociali, spazi di partecipazione, immaginari e linguaggi sono mutati radicalmente nel corso di questi anni. Un cambiamento in corso da tempo, frutto del continuo processo di predazione delle ricchezze comuni da parte del capitale, che ad oggi ha prodotto un’incolmabile distanza tra le abituali pratiche di opposizione sociale e la realtà in cui dovrebbero essere calate.
Questi vent’anni possono essere un’era geologica, una frazione temporale relativamente breve ma capace di comprimere in se un numero straordinario di mutazioni, trasformazioni, eventi e non-eventi. Un tempo compresso, come una fisarmonica, che necessitava di essere aperto e indagato.
Come assemblea del c.s.a. Pacì Paciana ci siamo quindi presi del tempo, per ragionare su come provare a riavvicinare pratiche, metodi e linguaggi alla realtà in cui siamo immersi. La necessità è uscire dall’automatismo di certe modalità oramai improduttive, il cui unico “vantaggio” è stato il metterci al riparo dallo scontro con la complessità del reale.
Vogliamo quindi andare oltre la riproduzione di pratiche sterili e simboli feticcio, smettere di professare alternative difficilmente reificabili.
Non abbiamo nessuna frenesia rottamatrice, lo sguardo è puntato in avanti ma i piedi poggiano sicuri sulle basi gettate tempo fa.
Per questo consideriamo fondamentale per un centro sociale la messa in discussione continua a scopo di ribadirne l’originaria funzione di risposta conflittuale a domande collettive.
Abbiamo quindi cercato di determinare le caratteristiche del sistema che ci circonda, partendo dalla sua capacità di mutare e non darsi mai in una forma finita, per trovare il punto di partenza del processo di ridefinizione.
I PILASTRI DEL CAPITALE
Per continuare ad esercitare dominio sulle nostre vite in modo da estrarne valore, il capitale è spinto ad una perenne trasformazione che ne rende difficile una descrizione completa e approfondita. Per questo motivo, ci soffermeremo solo su delle caratteristiche che riteniamo salienti nei meccanismi di predazione e di governo.
In primo luogo, ogni forma alternativa di vita, di identità o di scelta, è già prevista e assorbita dal capitale. Se non prevista, e per questo già di per sé potenzialmente pericolosa, la capacità del sistema capitalistico di assimilarla ha raggiunto un livello di efficacia mai visto nella sua storia: ogni forma alternativa è docilmente ricondotta nella metrica del profitto, e nel raro caso che questo non sia possibile, violentemente esclusa.
Numerosi sono gli esempi di assimilazione di pratiche alternative e potenzialmente conflittuali: il volontariato, l’azione gratuita in favore della collettività, è trasformato in un enorme business e snaturato a tal punto da generare l’ossimoro bestiale del lavoro gratuito. Persino l’accoglienza e la solidarietà sono oggetto di una speculazione garantita da meccanismi escludenti che vengono controllati e sfruttati dagli imprenditori politici del razzismo. Il consumo critico, nato come argine alla grande distribuzione e all’imposizione di stili vita insostenibili, si è ridotto allo scaffale del bio dell’Esselunga a firma Farinetti. Per arrivare alle relazioni sociali, messe immediatamente a profitto, come nei social network dove le interazioni tra amici su Facebook non sono altro che il mezzo con cui Zuckerberg guadagna vendendoci pubblicità personalizzata.
Ci si aspetterebbe che una forma predatoria così totalizzante e assillante generi una reazione di rigetto e opposizione.
Non è, purtroppo, così: l’assimilazione avviene in maniera “morbida”. Non c’è più la necessità di costringere il soggetto dentro identità predefinite, anzi, il capitale preferisce percorrere la strada dell’illusione di originalità. L’identità diventa la semplice autocostruzione indotta del sé, condotta per assembramento di infiniti modelli precostituiti ed immediatamente disponibili.
Le alternative proposte, in quanto prone al diktat del profitto, sono fruibili solo in modo effimero, generando giocoforza frustrazione a cui si tenta di rispondere inseguendo in maniera compulsiva altre alternative. Le quali nel migliore dei casi, quello in cui non siano solo modelli preconfezionati ma abbiano una qualche caratteristica di novità, vengono subito ricomprese e assunte nel meccanismo come ultimo modello disponibile, nuova irresistibile tendenza. Ne è esempio la dedizione con cui l’individuo considerato di successo si dedica alla manutenzione del suo “Io social”: nuovo post, nuova foto profilo, nuovo brillante commento, sempre a caccia di ciò che permetterà alla sua identità di percepirsi come originale, unica.
Una perenne ricerca senza fine, grazie alla quale il capitale prospera.
Infinite ricombinazioni possibili di identità alternative producono un’atomizzazione del singolo all’interno della massa, che lungi dall’elevarlo, lo rinchiude in una bolla personalizzante ed escludente. Attraverso questo processo, che è causa della mancanza di tratti comuni percepibili come condivisi nel momento della relazione con altri soggetti, la ricomposizione sociale risulta praticamente impossibile: in contraddizione con l’apparente iperconnetività, non siamo mai stati così isolati e irrelati.
L’asservimento dei rapporti sociali a logiche di profitto e sfruttamento non è una conseguenza imprevista dell’applicazione del dominio capitalistico sulle nostre vite, ma ne è parte fondante: le relazioni sociali, fruibili unicamente come bene di consumo, cessano di essere alla base dei processi di ricomposizione e condivisione, perdono il loro potenziale di opposizione alla predazione esercitata dai pochi sui molti. Così dominati, i rapporti sociali smettono di essere l’innesco di meccanismi di redistribuzione delle ricchezze su orizzonti collettivi.
Questa è ad oggi, secondo noi, la dimensione reale della connessione tra soggetto e ricchezza, e successivamente tra questi due e il territorio che li ospita. Dove per territorio intendiamo lo spazio fisico e relazionale che il soggetto abita e dove la ricchezza viene prodotta e successivamente non redistribuita.
Diretta conseguenza di questo stato di cose è lo svuotamento di efficacia dei meccanismi di partecipazione, che non solo non sono più in grado di fare opposizione, ma nemmeno di garantire un accesso alle ricchezze collettive difendendole dal dominio autoritario ed escludente del capitale: i territori, i saperi, le relazioni sociali, gli affetti, la produzione di ricchezza materiale e immateriale vengono gestiti unicamente come oggetto di predazione, e il loro accesso è sempre meno libero, sempre più soggetto a un dazio escludente di ingresso, sia esso di natura economica, sociale, di genere, età, etnia, etc.
IL CENTRO SOCIALE, OGGI.
Questi sono i tratti principali della nostra analisi, queste le condizioni dalle quali partire per ridefinire la funzione che il centro sociale può esercitare.
Storicamente il centro sociale nasce come aggregazione di spinte alternative alla società capitalistica, condensate in uno spazio fisico per aumentarne la forza e liberarne le energie conflittuali.
Oggi, come abbiamo visto, la possibilità di produrre alternative, controculture e immaginari, è ridotta al minimo; questo non per mancanza di intelligenze, motivazioni e creatività, ma per la capacità post-ideologica del capitale di assimilarle e farne strumenti propri.
È necessario ragionare su come sia possibile costruire forme alternative che sappiano essere riproducibili e che possano essere fuori e contro il dominio del capitale.
Si passa quindi dal centro sociale con funzione centripeta, al centro sociale generatore di strumenti per l’organizzazione conflittuale.
Conflitto che si può dare solo per mezzo di organizzazioni incompatibili con forme di profitto per pochi, la cui elaborazione, gestione e condivisione sia collettiva, attraverso spazi di partecipazione orizzontali e inclusivi, per generare ricchezze immediatamente redistribuibili nella collettività.
Il passaggio fondamentale è non separare la fase di produzione (di sapere, relazioni, risorse, ricchezze) da quella di redistribuzione e rimessa in circolo, crediamo che produzione e redistribuzione debbano vivere in uno stato di sincronia, condividere la stessa immediatezza, uno prevedere l’altro, essere definitivamente implicati. Questi, in ultima analisi, debbono, già nel loro essere pensati, prevedere la loro realizzazione come oggetto di ricchezza comune.
Il centro sociale diventa così attivatore di metodi di partecipazione che permettano di ripristinare il protagonismo del singolo nel collettivo, allo scopo di una reale incisione nei processi che governano la vita.
PACÌ PACIANA: IL BANDITO
Il processo di ridefinizione del centro sociale sarebbe incompleto se a questa analisi non seguisse una elaborazione pratica, la definizione di uno strumento possibile.
Così presentiamo il “Bandito”, forma di bando alternativa.
Abbiamo scelto la formula del bando in quanto richiama immediatamente la messa a disposizione di risorse in favore di una progettualità. Quello che il Bandito ha di differente è in primo luogo lo scardinamento della tradizionale prospettiva verticale tra gestore del bando e proponente: il Bandito ha stesura, assegnazione, gestione collettive e continue, e coinvolge non solo tutti i proponenti, ma anche i soggetti, i territori e le collettività intercettabili dal Bandito, oltre ovviamente chiunque sia interessato a partecipare.
Gli obiettivi delle progettualità dei Banditi sono facilmente identificabili, praticabili e raggiungibili; non più astratte parole d’ordine, ma realizzazione di una pratica immediatamente calata nella realtà.
La spinta rivoluzionaria del Bandito non sta solo nel praticare obiettivi pensati come effettivamente raggiungibili, ma anche nelle modalità che ne permettono la realizzazione.
Promuove pratiche e forme organizzative che possono essere di esempio e di stimolo per la loro riproducibilità autonoma sul territorio, senza, paradossalmente, la necessità stessa del Bandito.
Il Bandito deve sopperire a quell’emergenza culturale che ci vede intrappolati nella gabbia impostaci dal capitale, vuole costruire un’immediata abitudine all’opposizione e alla riappropriazione di ciò che ci viene predato in modo da restituirlo collettivamente, promuove spazi politici in cui si liberano le energie schiacciate dalla dicotomia assimilazione /esclusione.
Il Bandito è un progetto ambizioso e rischioso, uno strumento il cui funzionamento non è già scritto, qualcosa per il quale si rimette in gioco l’identità stessa di chi lo ha pensato, qualcosa che deve avere come obbiettivo il riportarci protagonisti delle nostre vite e del nostro spazio relazionale.
Qualcosa che ci riconsegni il nostro diritto ad immaginare e realizzare un mondo diverso, perché a vent’anni abbiamo ancora sogni grandi.
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