Milano. “La protesta delle tende che non è solo per noi”
Non siamo cinicə, siamo incazzatə.
Non posso credere che sia questo quello che vogliamo. Intendo tuttə. Essere costretti al cinismo. Come Diogene di Sinope trovarsi una botte – o una tenda – e vivere per sempre così solo per poter dire, to make a point.
Essere cinici, del resto, è da sempre: vivere una vita perfettamente in coerenza con ciò che si sostiene.
Diogene osservava la realtà e ne vedeva il matrix, sociopolitico: la sostanziale assurdità di un sistema asincrono, ingiusto, che si fondava sulla violenza, su oppressori e oppressi. Noi cosa diciamo, migliaia di anni dopo?
Diciamo che la mattina ci svegliamo, aspettiamo che la nebbia onirica vada via, pisciando, prendendo un caffè, una fetta biscottata col fondo della marmellata, fai ai frutti di bosco e sospendiamo l’incredulità proprio come al cinema: signore (in minuscolo)… fa che io oggi creda, abbia fede nella società, almeno per un secondo in questa società nella quale sono costretto e forse voglio pure vivere. E torna la routine, il lavoro o la disoccupazione, la solitudine o le relazioni.
Noi cosa diciamo? Appunto si diventa cinici. Qualcuno piazza una tenda e può farlo pure male, sul verde di fronte al Politecnico: “non avevamo un martello per i picchetti” mi hanno detto, io guardo la struttura assente e dico “si vede, si vede che non siete scout” e poi penso, senza dirlo, vergognandomi o meno, “o senzatetto”. Sono entusiasti, però: adrenalinici dell’attenzione dei giornali, delle istituzioni per questo gioco al cinismo, che ha tutto il significato del mondo! Mi dicono: ma i giornali sono interessati solo alle storie, “come dire: tristi. Ci dicevano: raccontate delle vostre case, che ne so, c’è muffa? Quanti letti ci sono?” e la risposta era sempre “ma perché? Questo non è il punto”.
Il punto è un altro, infatti. Il punto è che quello che abbiamo fatto (scusate, non riesco a non usare il noi, ma solo ed esclusivamente per un desiderio di collettività, vorrei avere il vostro coraggio) è aprire una voragine dentro un ingranaggio retorico.
Tirare il filo che non tiene. La vita universitaria è un mito favolistico che presto, vissuto in prima persona, diventa un incubo: sicuramente abitativo, poi di ansia da performance, incertezza sul presente e sul futuro, colpa.
Quando si tira giù un sipario così (giù proprio a terra, strappato) i giornali fanno un servizio pubblico. Pubblico cioè istituzionale. Cercano di tappare il buco. Vogliono una storia cinica, cioè una storia che da pubblica, appunto, diventa drammaticamente privata, alla Diogene insomma, che infatti è diventato famoso. Vogliono far riassorbire la consapevolezza da una storia.
Una lotta nella ribellione, meglio se giovanile, meglio se a lieto fine, e il lieto fine può essere solo il ritorno a casa, alla casa messa in discussione e, speriamo, accettabile per quello che è.
Ma noi non siamo cinici. Non vogliamo esserlo. Siamo incazzati. Noi che abbiamo una casa, carə giornalistə, non vi rispondiamo, non vi diamo il raccontino da poverty tourism perché le nostre case sono almeno qualcosa, sono costose, fredde, sono ammuffite ma sono sufficienti, svolgono una funzione.
Voi volete che rimaniamo dentro la favola dell’universitariə, la favola della classe media. Ci sta stretta. La lotta per l’abitare è una lotta di tuttə e per tuttə. È la lotta degli spazi aperti, dei parchi e delle piazze. È la lotta per luoghi di socialità liberata, di sport. Lotta per l’aria. Lotta dellə lavoratorə che spendono tutto il loro tempo, energico, per pagare una stanza che li farà riposare dal lavoro. È la lotta delle famiglie indigenti che cercano di sopravvivere. Delle persone migranti costrettə (mentre lavorano in nero, sfruttate, con la speranza di ottenere un permesso di
soggiorno, un foglio che garantisca una protezione internazionale) a dormire per strada, svegliate dai camion dell’Amsa che devono tenere le vie decorose per i turisti in arrivo alla Stazione Centrale, turisti così importanti per l’economia della città.
No, carə giornalistə, non vi raccontiamo dei ceci bio che comunque, in qualche modo, possiamo comprarci. Vi parliamo di asincronia, appunto, di salute mentale se volete, di ansia climatica oppure, di catastrofi private parliamoci, anzi: parlateci di cosa vi fa incazzare. Scommettiamo che sono le stesse cose, alla fine.
Io (torno in me) oggi ho dormito bene. Nella mia stanza dignitosa in una casa tutto sommato calda, nonostante le piogge invernali in primavera. Chi ha avuto la forza di dormire in piazza Leonardo Da Vinci, anche stasera, di fronte al Politecnico di Milano – a Roma di fronte alla Sapienza, a Cagliari e a Bologna e chissà dove ancora – non lo fa per ricevere promesse di investimenti, una pacca liberale sulle spalle per poter tornare a casa. Non lo fa per dare a nessunə un boost elettorale. Chi dorme in tenda non è cinicə, destinatə al martirio, non è chiusə in una botte. Sta lottando per tuttə, in un modo altro, l’ennesimo.
Ogni giorno, a Milano e in tutte le città d’Italia, qualcuno porta avanti una resistenza, fa mutualismo, attivismo. Non si arrende.
Questa è soltanto la lotta più recente e forse, carə giornalistə e soprattutto cari politici, è anche la più gentile.
Racconto di Demetrio Marra
Foto di Gianfranco Candida
Tag:
acampada affitti caro affitti carovita città studi diritto all'abitare diritto alla casa Lambretta Milano mutuo soccorso milano politecnico protesta studenti tende università