Dal fumo dei lacrimogeni all’alba di un nuovo Perù: la rivolta della Gen Z peruviana

Negli ultimi mesi il Perù è tornato a riempire le piazze. La caduta della presidente Dina Boluarte, travolta da un’ondata di mobilitazione sociale, non ha aperto alcun processo di cambiamento ma ha portato a un nuovo consolidamento autoritario. Al suo posto José Jerí, vicino all’apparato militare e ai vertici economici, ha scelto la strada della continuità e della repressione. Quella che attraversa il Paese non è una semplice crisi istituzionale: è una rivolta popolare, generazionale e anti-sistemica, che chiede molto di più della sostituzione di un volto al vertice dello Stato.

L’ultima miccia è stata la riforma pensionistica approvata a settembre, che obbliga tutti i maggiorenni a contribuire al sistema privato di risparmio gestito dalle AFP. Un provvedimento che ha colpito in modo diretto milioni di persone che lavorano in condizioni di precarietà e informalità, e che si è abbattuto su un terreno sociale già esplosivo. Dina Boluarte era la presidentessa con il minor consenso al mondo, e la riforma è stata il detonatore che ha trasformato l’insoddisfazione diffusa in rivolta aperta. Una rivolta che non chiedeva solo la sua fine, ma elezioni anticipate e un cambio strutturale.

Il sistema politico ha provato a cavalcare la protesta per poi reprimerla. Boluarte è stata destituita il 10 ottobre 2025, ma il cambio di governo non ha portato nessuna risposta alle richieste delle piazze. Jerí ha dichiarato lo stato d’emergenza, militarizzato Lima e Callao, ristretto le libertà civili e mantenuto intatta l’architettura del potere. Nelle stesse ore, nelle strade, la repressione ha fatto nuove vittime.

La composizione sociale della mobilitazione è ampia e articolata. Al centro c’è senza dubbio la “Generazione Z”, giovani sotto i 30 anni cresciuti nel Perù neoliberista, privati di prospettive e stanchi di un sistema politico percepito come corrotto e distante. Questa generazione si è organizzata in modo decentrato, senza strutture rigide, usando i social per coordinarsi, portando in piazza simboli globali — come la bandiera ispirata all’anime One Piece — e praticando una politicizzazione dal basso. Ma non ci sono solo loro. A mobilitarsi sono anche studenti universitari, lavoratori precari e informali, collettivi culturali, sindacati, settori rurali e comunità indigene che da anni sono protagonisti di lotte contro l’esclusione e la marginalizzazione. Si tratta di un fronte composito che attraversa città e campagne, periferie e centri, giovani e lavoratori.

La repressione ha colpito duramente. Il 15 ottobre Trvko (alias Eduardo Mauricio Ruiz Sanz), rapper e street-artist di 32 anni, è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato da un agente di polizia durante una manifestazione. La polizia ha ammesso la responsabilità del proprio agente. Trvko era una figura conosciuta nei movimenti popolari di Lima Nord, e la sua uccisione ha segnato una cesura: non più solo lacrimogeni e manganelli, ma la conferma che la violenza è parte strutturale della risposta statale.

Come scrive il testo “Yo fui un manifestante”, pubblicato dall’Istituto Bartolomé de las Casas, «Ho corso, ho respirato gas lacrimogeni, ho sentito le urla, ho visto i corpi cadere. Non sono stato un eroe, sono stato solo uno come tanti. Il potere dice che è stato tutto un caos, che si è sparato a caso. Ma chi era lì sa che lo Stato ha buona mira. Non spara in aria, non spara a caso: spara ai corpi mori, a quelli che vengono dalle alture, a chi parla quechua, a chi non vota come Lima. Non ci hanno visto come cittadini: ci hanno visto come nemici». E ancora, nelle stesse righe: «Quando ci hanno detto che i morti erano colpa nostra, che non dovevamo scendere in strada, che l’ordine doveva mantenersi, ho capito che per loro la vita di chi protesta vale meno di quella di chi comanda. Ma che ordine può reggersi sopra cadaveri? Hanno voluto spaventarci, ma ci hanno uniti. Hanno voluto silenziarci, ma ci hanno dato voce. Io sono stato un manifestante, e lo sarò ancora, perché non possiamo più tornare indietro».

La memoria di Trvko è diventata lotta. Domenica 26 ottobre, nel quartiere popolare di Independencia, centinaia di giovani hanno organizzato il festival “De Norte a Sur – Por Todo el Perú”: muralizzazione collettiva in suo omaggio, serigrafia con slogan della rivolta, skate, BMX, musica hip hop e ritmi popolari. “Nuestra memoria es colectiva y se muraliza” — si legge nella convocazione — “la nostra memoria è collettiva e si scrive sui muri”. In Perù la cultura hip hop non è intrattenimento: è strumento politico, è l’arte usata per ricordare e costruire potere popolare.

Le richieste delle piazze restano radicali: dimissioni di José Jerí e scioglimento del Parlamento, elezioni anticipate e Assemblea Costituente popolare, giustizia per le vittime della repressione e fine dell’impunità, riforme strutturali su pensioni, sicurezza sociale, accesso a servizi e diritti. Dietro questi slogan, una convinzione: nessuna transizione controllata dall’alto fermerà la mobilitazione dal basso.

Ciò che accade in Perù non è un’eccezione isolata. In questi stessi mesi, giovanə stanno guidando sollevazioni in Nepal, Marocco e in diversi paesi latinoamericani. Protestano contro governi autoritari, élite economiche chiuse e modelli neoliberali che producono precarietà. Anche in Europa, a Milano, nelle metropoli globali, si sente la stessa tensione di fondo: gentrificazione, lavoro povero, crisi ambientale, sfiducia verso la politica istituzionale. Le lotte non sono identiche, ma parlano la stessa lingua: quella di una generazione che non accetta più di sopravvivere e di comunità che rifiutano di essere governate senza voce.

La rivolta peruviana ha il volto di giovani che ballano, gridano e dipingono muri mentre sfidano uno Stato armato. Ha la voce dei rapper di periferia, dei collettivi studenteschi, delle comunità indigene e dei lavoratori informali. Ha la memoria di Trvko. Come ho scritto su Il Finestrino, «Chi scende in piazza non chiede solo le dimissioni di un presidente, ma la fine di un ciclo di autoritarismo che si traveste da transizione». Guardare al Perù oggi significa capire che la ribellione giovanile e popolare non è un fenomeno locale, ma parte di un’ondata globale. Costruire connessioni è compito di chi, anche da Milano, non si rassegna. La memoria si dipinge con la lotta e si scrive con il ritmo.

Andrea Cegna

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