[DallaRete] La pietà è già finita
di Cinzia Nachira, lavoroculturale.org
La vicenda dell’ultimo naufragio nel Mediterraneo ha già esaurito il suo potenziale di pietà. Alcuni accorgimenti propagandistici messi in atto dal governo italiano hanno prodotto una sorta di slittamento dall’orrore alla pietà e da questa all’identificazione di un nemico necessario contro cui combattere.
Abbiamo assistito, impotenti, alle descrizioni apocalittiche della “più grave tragedia in mare dalla seconda guerra mondiale”, senza che di questa ci giungesse un’immagine. Nessuno ha fornito all’opinione pubblica italiana ed europea un termine di paragone credibile. In effetti, purtroppo, a ricordare le tante stragi di profughi in mare, potrebbe non essere vero che la strage avvenuta nella notte tra il 18 e il 19 aprile sia la peggiore, né di quelle passate né di quelle a venire. In ogni caso questa caratteristica non dovrebbe aggiungere nulla all’orrore.
Ma questo “uso politico” della morte, come è avvenuto assai spesso, è funzionale ad obiettivi che nulla hanno a che vedere con la necessità di salvare gente innocente che fugge da guerre, fame, persecuzioni e carestie. Anzi, al contrario, spesso l’enfasi informativa data ad alcuni episodi è servita all’esatto contrario: preparare il terreno per avventure militari.
Non è necessario tornare in questa sede sull’evidenza: il caso della nave naufragata con un numero imprecisato di persone a bordo, in maggioranza tutte morte, tranne 28 superstiti, è tutto tranne che un episodio isolato, ma, invece, parte di un drammatico fenomeno antico di decenni.
Vogliono far credere, i nostri governanti nazionali ed europei, di aver “scoperto i colpevoli” di queste stragi: gli scafisti, le reti criminali che sfruttano questo esodo dai numerosi Paesi in preda a guerre di diversa natura. Quindi, sembra necessario “fermare” il traffico, non attraverso delle soluzioni che escano dalla logica emergenziale, ma facendo piani di attacchi militari. Chiunque si fermi un momento a riflettere capirà che non ha senso alcuno dire: fermiamo il traffico in Libia con “attacchi mirati contro le basi degli scafisti”. Cosa sono “le basi degli scafisti” e come identificarle?
In ogni caso non si capisce a cosa servirebbe tutto questo, anche si dovesse raggiungere questo obiettivo. Le ragioni per le quali milioni di persone in Africa come in Medio Oriente sono costrette ad abbandonare le loro case non riguardano certamente l’ultimo anello della catena.
Sembra di assistere ad una nuova puntata del grande allarme creato, e infondato, dell’ “ISIS a sud di Roma”. Sono trascorsi solo tre mesi da quella pantomima che però dette la possibilità ai nostri ministri degli esteri e dell’interno di iniziare a parlare di un intervento militare in Libia per “fermare il Califfato”.
In un editoriale pubblicato sull’edizione internazionale del New York Times del 22 aprile, Matteo Renzi sostiene: “non tutti i passeggeri sui barconi dei trafficanti sono famiglie innocenti” e aggiunge “il nostro sforzo per combattere il terrorismo in nord Africa deve evolvere per superare anche questa minaccia, che crea terreno fertile per il traffico di uomini e interagisce pericolosamente con esso”. Torna l’insinuazione che fra i profughi si celino i malvagi scagnozzi del Califfato pronti a compiere stragi in Europa per realizzare il loro progetto. Questa menzogna colossale e la sua ripetizione è la dimostrazione più concreta che fin dal 19 aprile in realtà le differenze tra la posizione di Matteo Salvini, Angelino Alfano, Matteo Renzi e i vertici europei erano inesistenti. Resta il gioco delle parti, ma la sostanza è la stessa. Quei morti nel Mediterraneo servono a molte cose e la “dichiarazione di guerra” lanciata sempre da Matteo Renzi “agli schiavisti del XXI secolo”, è utile soprattutto a nascondere due cose: il fallimento clamoroso delle politiche occidentali messe in atto in Africa del Nord e in Medio Oriente e per un altro verso legittimare il “rimpianto” del vecchio equilibrio politico messo in discussione dalle rivolte scoppiate nel 2011. Sta diventando un mantra, nel caso della Libia, dire che “se ci fosse Gheddafi oggi non avremmo tanti profughi in cerca d’aiuto”. Questo, d’altronde, è un altro modo per giustificare la giravolta politica verso Bashar Assad che da nemico torna ad essere amico, insieme ai suoi alleati più forti, la Russia e l’Iran. Non è un altro discorso, non ci stiamo distraendo. Questo è il quadro d’insieme. Per quanto ora gran parte delle rivoluzioni del 2011 in Medioriente e in nord Africa siano fallite non significa che non sia necessario, per coloro che tentano in tutti modi di tornare allo statu quo ante, continuare a screditare quei tentativi di emancipazione di interi popoli. A questo serve la menzogna dei “terroristi infiltrati” tra i disperati. Sfruttare l’onda lunga degli attentati a Parigi: questo l’imperativo. Questa scelta si impone per alcuni evidenti fallimenti clamorosi delle politiche occidentali.
A questo scopo il 17 aprile, durante la visita negli Stati Uniti di Matteo Renzi è stato reso pubblico un documento britannico di due pagine che riguarda la “grande coalizione anti-ISIS”, che non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che si era data alla sua nascita nell’agosto scorso. In questo documento si propone che Stati Uniti, Francia, Italia, Gran Bretagna e Germania formino di fatto una specie di direzione della coalizione e si aggiunge inoltre che occorre stabilire il principio per cui se uno Stato membro della coalizione è minacciato è obbligo degli altri intervenire in sua difesa. Come nella NATO né più, né meno (Paolo Mastrolilli, L’Occidente in azione anche in Libia. L’idea di Italia e Usa anti-califfato, “La Stampa”, 19 aprile2015).
La grande grancassa sull’ultima strage di migranti serve a giustificare questo cambiamento di rotta che Matteo Renzi sta perseguendo da mesi.
Ma qual è l’obiettivo del governo italiano? Non certo quello di salvare vite umane. Altrimenti non si sarebbe chiusa così in fretta l’operazione Mare Nostrum. Il vero obiettivo è quello di “esserci senza correre i rischi di una guerra”. Domenico Quirico, rispondendo ad un lettore il 22 aprile, ha spiegato molto bene il meccanismo che lega tutti i tasselli di questo complesso mosaico:
La propaganda bugiarda non appartiene, purtroppo, solo agli sgherri giulivamente comunicativi del califfo. Da mesi i telegiornali rigurgitano di filmati di scenografici bombardamenti ovviamente chirurgici. Posti di comando, convogli di blindati, capi sottocapi e gregari di ogni ordine e grado islamista, depositi di armi, tutto è stato sbriciolato per le edizioni della sera. Non dovrebbe esistere più nulla, visto anche i numeri riferiti dalla solita intelligence, di quei forsennati tra il Tigri l’Eufrate e i monti del Libano. E invece la non metafisica presenza di quelle forze terribili e crudeli continua. Abu Bakr è già morto e risorto almeno quattro volte. Le annibaliche avanzate degli eroici peshmerga curdi e delle legioni sciite a comando persiano sono servite in realtà per qualche conferenza stampa di notabili mediorientali e statunitensi.
Purtroppo sta per arrivare il primo anniversario della proclamazione del califfato di Mosul. Un anno. Un infinito tempo nella Storia: perché quella micidiale e sanguinaria costruzione politica si è conficcata nel territorio e nelle coscienze di coloro che vivono laggiù, sta pericolosamente diventando, ovvia, naturale e permanente nello spazio e nel tempo. Mentre i droni affilano i denti, il califfato con le giaculatorie sorrette dagli sgozzamenti amministra e plasma le coscienze di centinaia di migliaia di sventurati «sudditi». Srotolando tappeti davanti all’Iran e affidandogli la «riconquista» del Nord dell’Iraq abbiamo garantito al califfo l’alleanza eterna delle tribù sunnite che costituiscono la massa delle sue fanterie. Cosa potrebbero fare di diverso? L’arrivo dei «liberatori» iraniani e sciiti significherebbe per loro la necessità di fuggire o di essere ridotti, al meglio, al ruolo di iloti. (La Stampa, 22 aprile 2015)
All’indomani della riunione straordinaria del Consiglio europeo del 23 aprile, queste parole sono confermate dalle decisioni assunte. Nessuna vera misura concreta per arrivare ad una accoglienza dei profughi già presenti e di quelli che arriveranno. Nessuna revisione dei trattati europei, da Schengen a Dublino, che sono la vera origine dei flussi migratori gestiti dai trafficanti. Anzi, da questo punto di vista la decisione di triplicare i fondi stanziati per l’operazione Triton altro non fa che rendere il nostro continente ancora più inaccessibile.
In definitiva è abbastanza chiaro perché a fronte di un fallimento, Matteo Renzi, nella sua infinita arroganza ed ignoranza, festeggia. Da un lato, incassa i soldi, tanti, europei e dall’altro resta libero di organizzare quell’intervento militare in Libia già in programma da mesi. Se poi questo intervento viene ritenuto una follia allo stato puro da chiunque, compreso il generale Graziani, sembra che poco importi ad una compagine governativa che ha come obiettivo prevalente quello di “esserci”. A prescindere dai rischi. Rischi innumerevoli e potenzialmente catastrofici. La vicenda inquietante e tristissima di Giovanni Lo Porto dovrebbe essere un campanello d’allarme riguardo i Droni e un loro uso generalizzato su 1.500 chilometri di confini, quelli della Libia, e ciò che potrebbe significare in termini di perdite umane.
Inoltre, quando si dice, come fa il nostro governo, ad una sola voce, che l’obiettivo è quello di “stabilizzare” la Libia e che a ciò dovrebbe servire la “guerra agli scafisti”, nessuno dice con quale dei due governi libici si pensa di trovare un accordo. Anzi, entrambi i governi, quello di Tobruk e quello di Tripoli, hanno già dichiarato la loro indisponibilità ad una simile operazione. E quando si parla di “stabilizzazione” attraverso un dialogo “tra le fazioni libiche”, di cosa stiamo parlando? In Libia sul terreno vi sono centinaia di gruppi armati che si contendono il controllo di piccole porzioni di territorio, alcune volte alleati tra loro e altre in lotta. In mezzo, come al solito, una popolazione stremata dalla violenza che subisce e le centinaia di migliaia di profughi vittime di campi di detenzione disumani per mesi e anni.
In questa situazione, pensare che un blocco navale o “interventi terrestri mirati” (a cosa?) possano portare stabilità è un suicidio. Se anche, per il momento, l’Europa, con l’ovvia eccezione dell’Italia, si è detta nei fatti contraria ad un intervento armato, non è da escludere che invece questo obiettivo possa essere raggiunto in un altro modo: attraverso l’ONU. In questo consiste l’incarico affidato a Federica Mogherini, come alto rappresentante della politica estera europea (sic!). Perché per quanto Matteo Renzi possa andare avanti come un carro armato senza guida, evidentemente una guerra non può farla senza uno straccio di legittimazione internazionale e ormai dal 1991 l’ONU è lo strumento privilegiato per dare una copertura accettabile al peggio. Purtroppo, non è da escludere che grazie alla mediazione della Francia, il Consiglio di Sicurezza approvi una simile follia grazie sempre al comma 42 di quell’articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite che autorizza l’uso della forza. È già avvenuto.
Ma per un altro verso è anche necessario sottolineare la debolezza di quello che un tempo era il movimento contro la guerra e che nei suoi momenti più alti riusciva a tenere insieme le cose, mentre oggi appare debole ed anche contraddittorio. Infatti, molte delle richieste e rivendicazioni avanzate in questi giorni non sono molto efficaci. Questa osservazione non è un modo romantico per rimembrare i bei tempi, ma la consapevolezza di quanto sia purtroppo scarsa la coscienza che le ragioni di fondo che in questi ultimi quattro anni hanno spinto milioni di persone a fuggire dai loro Paesi sono profondamente cambiate. Per quanto i paragoni storici siano sempre un azzardo, forse quello più vicino alla situazione attuale è quello con l’Europa del secondo conflitto mondiale quando a passi rapidi il nazismo si estendeva in tutti i Paesi costringendo masse sempre più consistenti di popolazione civile a fuggire dalle dittature e dalla fame causata dalla guerra. Nel 1942 il solo Paese da cui era possibile fuggire era rimasto il Portogallo.
Oggi le masse di profughi che fuggono dal Medioriente, dal Nord Africa, dai Paesi del Sahel e dall’Africa sub sahariana hanno quelle stesse ragioni degli europei del 1942. La Libia è rimasto forse l’unico Paese, a causa del caos interno, da dove, seppure in modo assai pericoloso, possono sperare di partire coloro che cercano una salvezza possibile. In condizioni anche peggiori di quelle dell’Europa del 1942.
Se fino a qualche anno fa era possibile, forse, distinguere fra i cosiddetti “profughi economici” e “profughi di guerra” o politici, oggi queste tre cause e le loro conseguenze si sono fuse. Perché anche i Paesi ancora solo lambiti dalla guerra civile sono pochissimi e comunque già poverissimi accolgono centinaia di migliaia di fuggiaschi dai Paesi vicini. I casi e gli esempi sono moltissimi, basta aprire una carta geografica dell’Africa o del Medio Oriente per rendersene conto. Tuttavia, è ancora da questi Paesi che spesso ci giungono lezioni politiche concrete. Due esempi.
Nelle stesse ore in cui si consumava la tragedia del 19 aprile nel Mediterraneo, migliaia di profughi yemeniti in fuga dal loro Paese in preda ad una sanguinosa guerra civile, in cui si stanno scontrando Arabia Saudita e Iran, venivano accolti da Gibuti, un piccolo Paese africano che ha meno di un milione di abitanti. I profughi yemeniti sono arrivati a Gibuti con dei voli organizzati e attraverso dei traghetti e sono stati accolti in campi da dove possono muoversi liberamente e dove almeno hanno salva la vita.
In Etiopia, a Adis Abeba, il giorno dopo la strage nel Mediterraneo c’è stata una gigantesca manifestazione contro il Califfato libico. Infatti, nei giorni precedenti la partenza del 18 aprile, 24 giovani etiopi erano stati massacrati dagli assassini del califfato perché cristiani. Ad Adis Abeba hanno dato la risposta migliore e quella che se non resta isolata è l’unica efficace: hanno riempito le piazze. Come, d’altronde, qualche settimana prima avevano fatto i giovani kenioti in risposta all’eccidio di Garissa.
Quei giovani etiopi e kenioti hanno mostrato la giusta direzione da seguire, non certo quella di accettare in un modo o nell’altro la logica che ci impongono i nostri governanti, pronti a fare accordi con dittatori vecchi e nuovi. È di questo che stiamo parlando, non di altro. Più tardi lo capiremo più alto sarà il prezzo che pagheremo tutti.
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