Se questa è Gezi

13348948_1175416722477982_240849692_nNei giorni del terzo anniversario delle rivolte di Gezi Park, per le strade del centro di Istanbul è andato in scena un rituale consueto: imponente schieramento di polizia in tenuta antisommossa, decine di blindati e di toma, i famigerati cannoni ad acqua, il parco già dal giorno precedente evacuato e transennato. Tensioni e spintoni tra polizia e le persone che volevano raggiungere piazza Taksim.
I manifestanti non erano tanti, circa un centinaio, assediati da un numero ben maggiore di forze di polizia. Il segno che Gezi è persa, ma non dimenticata. Tre anni fa la difesa di alcuni alberi ad Istanbul sfociò in una protesta antigovernativa che dilagò per tutta la Turchia, interessando 77 delle sue 81 province . Una sorta di brivido attraverso la colonna vertebrale di un paese paralizzato da colpi di stato, governi militari, repressione violenta del dissenso.
Oceaniche manifestazioni e scontri durissimi con la polizia durarono per giorni. A Gezi Park, sgomberato violentemente dai primi ambientalisti che difendevano l’ultimo pezzo di verde del centro di una città in piena trasformazione urbanistica, venne riconquistato da una moltitudine di persone che vi realizzarono la società ideale: centinaia e centinaia di tende, mense gratuite, biblioteche, ambulatori, una radio, iniziative culturali, marce, balli e canti continui.
Una babele euforica dentro cui formicolavano persone di ogni età, genere, estrazione sociale, cultura, religione: dai lupi grigi ai curdi, dagli attivisti lgbtq agli islamici anticapitalisti. Non ce l’aveva un’identità quel movimento improvvisato e spontaneo, inutile e forzoso andarla a ricercare: ma ci pensò l’allora primo ministro Erdoǧan a fornirgliela, apostrofandoli come “Capulçu”, sbandati.
I Capulçu, come all’istante si autoproclamarono orgogliosamente tutti i ribelli, sognavano e realizzavano quello che la Turchia, oppressa da un passato di lacerazioni e conflitti, sembrava non potesse essere: una società pacificata, solidale, propositiva, moderna.

Che fine ha fatto Gezi? Gezi non è morta il 15 Giugno, quando con l’ennesimo uso abnorme della forza venne sgomberata; non è morta nei mesi successivi quando il suo spirito riempiva i parchi di Istanbul e di altre città di centinaia di persone che discutevano sul futuro del loro paese, e colorava di arcobaleno scalinate che poi vennero abbattute, non è morta nelle successive elezioni amministrative, presidenziali, politiche, quando nonostante la costante vittoria dell’AKP, il partito di Erdoǧan nel frattempo diventato presidente, contribuiva all’affermazione di una nuova forza politica come l’HDP, il partito democratico dei popoli. Entrava in Parlamento una forza politica che superava la sua origine curda e riusciva a rappresentare le istanze democratiche di una società civile multietnica, libertaria, ecologista e femminista. In qualche modo, un’eredità di Gezi.

Gezi ha fatto di tutto per resistere, ma se ne sta andando piano piano. I Turchi hanno da tempo perso la speranza che le piazze possano determinare le politiche di governo. Troppo gas è stato riversato sulle loro richieste, e scelte suicide calano sulle loro teste. La ripresa del conflitto con il PKK, le mire egemoniche sulla Siria, la relazione ambigua con l’estremismo islamico, hanno fatto si che la Turchia tornasse un paese insanguinato e lacerato: autobombe nelle principali città, campagne militari nel Sud-Est a maggioranza curda, città distrutte e centinaia di vittime civili innocenti. E nessuno più in piazza.

Oltre a perpetrare un massacro di civili, per la maggior parte curdi, in Turchia si sta distruggendo un processo democratico. Il giorno dell’affermazione dell’HDP, sembrava essere tornata l’euforia di Gezi Park: una crepa sembrava essersi aperta dentro una rappresentanza cristallizzata ed egemonizzato dal progetto dell’Islam politico che il presidente Erdoǧan aveva riportato in auge 15 anni prima. Forse un freno alla sua corsa verso il potere assoluto. Erdoǧan stesso ha percepito quel risultato come una minaccia, e non ci ha pensato due volte ad interrompere il processo di pace con il PKK per riesumare lo spettro del terrorismo curdo e gettare discredito sul nuovo partito. Operazione quasi perfettamente riuscita: impedita la formazione di un nuovo governo, sono state riconvocate nuove elezioni, nelle quali il partito l’AKP ha riconquistato la maggioranza assoluta. Non ha potuto eliminare l’HDP, che è comunque riuscito a superare la soglia di sbarramento del 10 % e rimanere in Parlamento, ma ci sta provando un altro modo.

In questi giorni, il Parlamento turco è impegnato a votare un emendamento costituzionale presentato dall’AKP che mira a rimuovere l’immunità parlamentare ai deputati a cui la magistratura ha chiesto il rinvio a giudizio. Seppur la norma scritta riguarderebbe esponenti di diversi partiti, la legge sembra essere stata scritta appositamente per punire e ridurre al silenzio i deputati del l’HDP: su 59 deputati, 50 hanno almeno una richiesta pendente e rischiano quindi l’arresto con accuse di sostegno al terrorismo. L’obiettivo dichiarato di Erdoǧan, che ha appena licenziato il premier Davoutoǧlu, giudicato “troppo morbido” è conquistare i voti dei due terzi dei componenti del Parlamento turco che gli permetterebbe una modifica della Costituzione senza dover indire un referendum. Quindi togliere l’immunità ai deputati dell’HDP significherebbe non solo escluderli dal Parlamento ma, grazie all’approvazione della legge, spianare la strada verso la conquista dei due terzi dei parlamentari: un vero e proprio golpe.

Contemporaneamente, la Turchia ha 33 giornalisti in carcere, uno dei numeri più alti al mondo, due mesi fa la sede del principale giornale di opposizione è stata assaltata da un bliz e commissariata, il direttore ed il vice direttore di un altro giornale dell’opposizione sono stati arrestati per aver pubblicato un servizio che provava il traffico di armi dalla Turchia verso le postazioni dell’Isis, ed in primo grado la magistratura ha chiesto una condanna di 20 anni. E molti degli accademici che tre mesi fa vennero incarcerati per aver firmato un’appello che chiedeva la fine delle operazioni militari nel sud est del paese, hanno perso il loro posto di lavoro.

Un paese peggiore di quello che i Capulçu contestavano. Ma ora i Capulçu non ci sono più.

Serena Tarabini

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