Il razzismo è di Stato
Un editoriale congiunto, della redazione di Globalproject e di quella di Meltingpot, sui rastrellamenti “etnici” avvenuti alla stazione di Milano centrale martedì 2 Maggio.
Update: subito dopo la pubblicazione di questo editoriale abbiamo appreso la notizia della morte di Nian Maguette, un ambulante senegalese, avvenuta a Roma dopo un blitz della polizia urbana. Sembrerebbe che il migrante sia stato strattonattato dagli stessi poliziotti ed investito da una moto dei vigili urbani, mentre tentava la fuga per sfuggire alla retata. Per tutto il pomeriggio ci sono state proteste della comunità senegalese e di altri migranti, con la celere schierata in assetto antisommossa.
Milano, 2 Maggio 2017, Piazza Duca d’Aosta: un ordinario martedì di rastrellamenti etnici. Ciò che ieri è accaduto a Milano preannuncia la nuova normalità dettata dall’ideologia securitaria che identifica nel migrante una delle prime figure da sgomberare dallo spazio pubblico. Le immagini che rapidamente hanno fatto il giro dei social sono così odiose quanto quelle dei rastrellamenti del 1943. Ma ciò che abbiamo visto ieri è la misura di ciò che sta per essere, non il ritorno di un tetro passato.
È appunto questa ideologia securitaria, che con il decreto Minniti sulla “sicurezza urbana” si fa ideologia di Stato e norma una metodologia ampiamente radicata nella gestione dell’ordine pubblico, ad essere alla base dell’operazione di “sicurezza integrata” condotta alla stazione centrale di Milano. Un’ideologia che si mostra nella sua quotidianità, sperimentata più volte con le identificazione ed i fermi di massa avvenuti a via Cupa a Roma, sui treni che conducono verso il Brennero, Como o Ventimiglia, nelle stazioni “di frontiera”.
La scelta della stazione centrale di Milano come palcoscenico per il debutto della “linea Minniti” non è certamente un caso, non solo perché le stazioni, le aree verdi ed i luoghi interessati da consistenti flussi turistici sono espressamente indicate nel decreto come luoghi il cui decoro va tutelato: la lotta al degrado che si fa guerra contro la marginalità sociale deve esordire proprio lì, in uno dei crocevia di quelle nuove povertà generate dal fallimento delle politiche di accoglienza ed integrazione e che rendono visibile il regime dei confini interni alle nostre città.
Le premesse dell’operazione in “grande stile” erano già scritte nella circolare del 30 dicembre scorso del capo della polizia, nella quale si evidenziava quanto rivesta «un ruolo importante il dispositivo volto al controllo ed all’allontanamento degli stranieri irregolari». Le prove generali, oltre agli asfissianti e discriminatori controlli quotidiani nei luoghi più sensibili delle città, erano state un documento del Viminale, dello scorso 26 gennaio, con il quale si sanciva l’inizio della “caccia” ai migranti nigeriani. Quasi un mese di rastrellamenti “mirati” su base etnica per stanare il migrante irregolare, trasferirlo nei posti riservati dei CIE e quindi deportarlo in Nigeria, un paese con cui il governo italiano vuole rafforzare la partnership con l’obiettivo di bloccare le partenze. Rimpatri forzati che avevano un doppio significato: da una parte dare un’immagine di efficienza e rispondere alle pulsioni più reazionarie del Paese, dall’altra avere la velleità di formulare un deterrente per i migranti in procinto di partire.
Ma l’Italia, per scelte politiche dettate dall’Unione Europa sulla gestione dei flussi migratori, ben prima del periodo Gentiloni-Minniti-Orlando, ha accettato il ruolo di gendarme europeo sul controllo dei movimenti secondari dei migranti. E’ questo il paradigma dell’approccio hotspot che non si applica ai soli centri ubicati nel sud Italia, ma si manifesta in tutte le città interessate dalla mobilità dei migranti, trasformandole in uno spazio nel quale si implementano ulteriormente i dispositivi di controllo e di identificazione di massa. Strumenti propedeutici al successivo smistamento dei migranti in altri territori o nei centri di trattenimento, in attesa del rimpatrio coatto. Inoltre l’approccio delle politiche europee punta anche a generare un’ulteriore distinzione tra i migranti, dividendo chi è disposto al lavoro ad ogni condizione, sfruttato nei ghetti del sud Italia o impiegato gratuitamente nelle mansioni socialmente utili, da quello improduttivo che cerca di sottrarsi al ricatto. La regolamentazione – o la perimetrazione della libertà di movimento dentro i confini di uno stesso stato, o dentro le metropoli – è strettamente funzionale a questa distinzione.
Alla fine della giornata di ieri apprendiamo che delle 52 persone trattenute presso la Questura di via Fatebenefratelli, solamente 10 risultavano con documenti non regolari; la restante parte erano migranti con regolare permesso di soggiorno o richiedenti asilo, e tutti quanti sono stati rilasciati. Anzi, ci preme far notare che a cinque persone è stato reso noto l’esito positivo della domanda di protezione internazionale! Questo dimostra la grande sedimentazione esistente tra la composizione sociale che ha scelto di “stanziare” nell’area in questione, ma allo stesso tempo rende evidente il carattere razziale ed intrinsecamente politico dell’azione di polizia. A Milano, come in altre città dove questi rastrellamenti sono all’ordine del giorno, esiste una continuità priva di sfumature tra apparati polizieschi ed amministrazioni comunali nella progettazione e nella gestione di questo tipo di operazioni, ed in generale in iniziative in cui è più stretta la relazione tra spazio urbano ed ordine pubblico. Una continuità che non si limita al solo dato tecnico di collaborazione tra i vari quadri istituzionali, che si esprime nei vari “tavoli per la sicurezza” o “per il decoro” et cetera, ma che è diventata elemento su cui si fonda quella forma di vita securitaria che proprio sulla pelle dei migranti ha trovato terreno di sperimentazione ed applicazione.
Proprio sul terreno della sicurezza si rende evidente un’area di promiscuità tra le varie forze politiche che storicamente hanno sfumato le reciproche differenze di intenti e di pratiche. La vicenda di Milano è un chiaro specchio di questo e non a caso giungono contemporaneamente i selfie di Salvini davanti alla stazione e le dichiarazione di plauso alla Questura fatte dall’assessore alla sicurezza della giunta Sala, Carmela Rozza, seguita a ruota da tutti i principali esponenti del Pd milanese. Ci chiediamo, ma ce lo siamo sempre chiesti, che legittimità abbia il comune di Milano nel partecipare, e addirittura promuovere, la manifestazione “20 maggio senza muri” che, nelle dichiarazioni dello stesso Sala, dovrebbe «avvicinare Milano a Barcellona, città dell’accoglienza».
Il contrasto tra l’operato della Giunta e le intenzioni affidate alla convocazione della manifestazione è troppo forte. Come si può rivendicare l’accoglienza come radice storica della città di Milano, «incontro tra storie diverse», o fare appello alla cultura dei diritti e della responsabilità per sostenere i più fragili, “i vulnerabili”, senza ammettere in primis le responsabilità dell’Amministrazione cittadina nel non garantire il più basilare rispetto dei diritti umani? Che senso ha cercare di riprodurre la manifestazione di Barcellona senza aprire progetti reali in città, anzi cercando di semplificare la questione migratoria con operazioni meramente repressive?
Per tutte queste ragioni è necessario superare la vocazione retorica che spesso si è nascosta attorno all’espressione “razzismo di Stato” ed iniziare a comprendere le modalità attraverso le quali il razzismo praticato e normato dalle istituzioni diventa paradigma del nuovo ordine post-democratico. Se per democrazia intendiamo, almeno a livello formale, una relazione tra persone singole ed istituzioni basata sulla tutela delle libertà individuali, adesso la loro violazione diventa strutturale e non lascia più margine di una futura inclusione, seppure differenziale, all’interno della cittadinanza. Il razzismo istituzionale non è un fenomeno carsico che si presenta di fronte ad un problema contingente per escludere i migranti dai diritti di cittadinanza e dalla libertà di movimento. Il razzismo praticato dalla governance rende “vite non degne” i migranti, privandoli anche di quelle tutele, in quanto individui ed umani, di cui dovrebbero godere al di là della nazionalità. Di fatto, al contrario, ci troviamo di fronte all’assunzione della linea del colore della pelle e della provenienza geografica come elementi di ridefinizione non solo del concetto di cittadinanza, caratterizzato attraverso un negativo giuridico («io sono tutelato da uno Stato che non tutela te, perché provieni da un’altra nazione»), ma dell’idea stessa di essere umano.
Queste considerazioni ci spingono a dire che Milano, ieri, non era come Roma nel 1943, come Varsavia, come Sarajevo. Questo tipo di narrazione, drogato di sensazionalismo ed intriso di quella logica emergenziale che tende a problematizzare il razzismo solo in occasione di eventi iper-mediatizzati, è fuorviante perché lo inquadra unicamente come fenomeno episodico. Al contrario i fatti di Milano sono da comprendere non solo per esercizio di prassi conoscitiva, ma per dotarci di strumenti adeguati di opposizione a questo nuovo paradigma, che vediamo esprimersi in ogni dove e quando, che coinvolge tutti i livelli delle istituzioni, ed è radicato in maniera molecolare nella nostra società.
di Globalproject e Progetto Melting Pot Europa
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/il-razzismo-e-di-stato/20789
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