Poggioreale, una rivolta lunga cinquant’anni
Il 12 luglio del 1968, mentre il sole rende incandescenti l’aria e il cemento, durante l’ora d’aria, circa seicento detenuti del carcere di Poggioreale (che ospita complessivamente 1870 detenuti maschi e 160 donne) immobilizzarono gli agenti di custodia. In breve, riescono ad aprire le celle dei padiglioni e a prendere possesso di parte degli edifici. Una volta aperte le celle, si legge nelle cronache dell’epoca, “vetri infranti, infissi divelti, mattoni asportati, mobilio distrutto. La sala di rappresentanza è ridotta ad un ammasso di rottami, i muri sono anneriti dal fumo per gli incendi appiccati dai rivoltosi, le celle inabitabili per mancanza di panche, brande e pagliericci; i padiglioni sono privi dei cancelli di ferro, abbattuti per ricavarne rudimentali armi”.
Colpi di mitra feriscono gravemente alle spalle due detenuti, tre agenti di custodia riportano ferite che richiedono le cure dell’infermeria. I detenuti si asserragliano nei padiglioni Salerno e Livorno. Fuori il carcere si radunano preoccupati i familiari, dall’alto dei tetti fazzoletti che sventolano e grida di protesta. Accorrono i magistrati e i rinforzi circa cinquecento agenti di polizia penitenziaria; da Roma di urgenza arriva il rappresentante della Direzione generale degli istituti di prevenzione e di pena del Ministero di grazia e giustizia. Si apre una trattativa, lunga e non semplice, che si conclude il giorno successivo e che porta al rientro di una protesta che poteva avere un bilancio molto più grave.
Il motivo primo della rivolta è la grave mancanza di acqua, erogata solo per qualche ora al mattino. Da settimane era in atto una protesta pacifica (con battitura delle celle). La direzione aveva promesso che si sarebbe trovata presto una soluzione. Invece, è arrivato il caldo, in reparti che ospitano anche sedici detenuti per cella, così l’ultimo episodio non è che l’innesco di una miccia accesa da tempo. Durante le trattative, le delegazioni dei detenuti chiedono un miglioramento della vita detentiva e sollecitano la riforma dell’ordinamento penitenziario, considerato che ancora si applica in quegli anni il regolamento approvato nel 1931 durante il fascismo. Nei giorni successivi, mentre il prefetto interviene con i tecnici dell’acquedotto napoletano, prima ancora che il problema dell’acqua venga risolto, ottocento detenuti vengono trasferiti di urgenza, mentre i rappresentanti degli agenti di custodia lamentano di essere sotto-organico (ce ne sono circa quattrocentocinquanta a Poggioreale).
16 giugno 2019, sono trascorsi cinquantun’anni. Nel padiglione Salerno, scoppia una protesta accesa che non assume i contorni di una rivolta, ma ci somiglia un po’. Il sole è ancora lì a rendere incandescenti le celle, i cortili e il cemento, ancora si sta in quattordici per cella. Nel mese di gennaio nel carcere sono presenti 2.296 persone (tutti maschi, non c’è più la sezione femminile) rispetto alla capienza di 1.638 posti. La protesta nasce da un episodio, la richiesta di ricovero per un detenuto con febbre alta, ma anche qui le ragioni del malessere derivano da un più generale di sofferenza.
Nella sua visita ispettiva di marzo scorso, il Garante nazionale per le persone prive della libertà, Mauro Palma, aveva dichiarato di «apprezzare lo sforzo di migliorare le condizioni materiali dei reparti, tuttavia a fianco a quelli ristrutturati, alcuni sono invece appena accettabili e altri del tutto inaccettabili» e inoltre di aver riscontrato «gravi criticità e una certa difficoltà da parte dell’area sanitaria a raggiungere tutte le persone e a rispondere ai bisogni di una popolazione che spesso viene dalle fasce più marginali e quindi già deprivate anche sotto il profilo della salute». A ciò «si aggiungono le condizioni materiali che coinvolgono anche le strutture sanitarie: il Servizio di assistenza intensificata (Sai) posto nel padiglione San Paolo ha bisogno di interventi di adeguamento, così come l’ambulatorio di primo soccorso. Il degrado dell’ambiente non deve spingere ad abbassare l’attenzione nei confronti dei pazienti». Ed anche il Garante regionale, Samuele Ciambriello, aveva più volte richiamato l’attenzione sui rischi del sovraffollamento e su ciò che comportava in termini di aggravamento delle condizioni detentive.
Sarebbe sbagliato pensare o dire che in questi cinquanta anni nulla è cambiato, anzi. È anche (soprattutto) grazie alle proteste e alle lotte cominciate nel 1968 che si è avuta una riforma dell’ordinamento penitenziario, che sono state introdotte le misure alternative, che sono nate istituzioni di garanzia, come appunto quelle dei Garanti nazionale e regionale, che si è cercato in più modi e forme di dare sostanza al principio costituzionale per il quale la pena non può essere contraria al senso di umanità. Eppure, nonostante tutte le conquiste ottenute, i due passi avanti ogni passo indietro, Poggioreale ci ricorda che a separare queste due rivolte sono cinquantun’anni che valgono poco più di un giorno. Perché tanto poco vale questo tempo che è passato senza che fossimo in grado di cambiare veramente lo stato delle cose e avere il coraggio di ammettere che ci sono luoghi che non vanno riformati. Più semplicemente, vanno chiusi.
di Dario Stefano Dell’Aquila
da NapoliMonitor
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