Un fiore nella tempesta. Il viaggio di una Brigata verso un nuovo futuro
Se i primi passi sulle travi scricchiolanti del ponte della nave furono cauti e incerti, fu la mano ferma che afferró il timone a scacciare via ogni paura.
Ci siamo incamminati in questo percorso come ci si addentra in un bosco sconosciuto, ma l’abbiamo fatto scalzi, arroganti, sicuri che tutto quello di cui avremo avuto bisogno ci stesse aspettando alla fine della strada, sulla linea dell’orizzonte che per troppo tempo abbiamo inseguito navigando in mare aperto a vele spiegate.
Dopo ormai più di un mese lontani da casa, questa tempesta continua a costringerci a guardarci allo specchio e a mettere in gioco tutta la caparbietà che possiamo raccogliere. Abbiamo accolto richieste d’aiuto e volti stanchi e sorrisi riconoscenti, e l’abbiamo fatto con la consapevolezza che la strada è ancora lunga e che, un giorno, ci riuniremo a quegli stessi volti per stringerci in un cerchio e pianificare la nostra rivalsa.
Saremo gli ultimi, gli sfruttati, gli anziani, i viandanti, le persone senza fissa dimora e senza un futuro, ma con una storia alle spalle. La tempesta che si abbatte su di noi ci sta mettendo a dura prova, ma rafforza in noi l’intenzione di non lasciare nulla indietro, che sia una donna, un uomo, una parola di conforto, una miccia in grado di dare fuoco al nostro tempo.
“Come posso essere d’aiuto?”.
Avvicinando un pezzo di legno al mio tizzone e bruciando insieme, alzando i calici e i pugni al cielo, chiamandomi compagno. Dovremo bussare ancora a tante porte, guardare in faccia la miseria e la vergogna di uno Stato cieco nella sua violenza. Non ci limiteremo a sfamare gli affamati, fomenteremo gli istinti più repressi e soffieremo contro la metropoli, l’abbandono, i vostri soldi e il nostro cielo. E quando la tempesta sarà finita, ci accorgeremo che la pioggia è soltanto acqua, che il tuono è una dolce canzone e che noi restiamo sempre in piedi. Vestiti di pezze, graffiati in viso, scossi nelle gambe, ma fermi al posto che ci spetta, quello del bambino sull’asfalto della periferia, quello della giovane al ciglio della strada, quello dell’operaio chiuso nella fabbrica in fiamme.
“Verrà il nostro tempo”.
E saranno nuovi inverni. Noi con le famiglie che abbiamo soccorso nell’istante più difficile, voi con i ragazzi e le ragazze della Brigata, quelli con gli sguardi fermi e i passi pesanti. Ci ricorderemo della paura con cui hanno avvelenato i nostri spiriti, ci ricorderemo della città fantasma, della polizia, delle mense chiuse, degli anfratti urbani affollati di disperati alla ricerca di un riparo. Ci presenteremo alla soglia di chi ci ha detto che in emergenza non si deve più sognare e gli presenteremo il conto accumulato, gli mostreremo il nostro cuore svuotato di entusiasmo e riempito di una rabbia che sa di papaveri e di nuova stagione. Faremo vedere al mondo che solo noi possiamo sconfiggere il virus e, con lui, mandare via il loro sporco, vigliacco, vecchio mondo. E alla fine torneremo a fischiare l’amore e ad attraccare nei porti che chiamiamo casa. L’alba ci vedrà abbracciati sulla scogliera, imperanti sull’avvenire. Ci guarderemo intorno e capiremo che il virus ci ha regalato compagne e compagni contenti di non deporre mai né le armi, né i sorrisi. E nella primavera che verrà, renderemo omaggio a chi, prima di noi, ha preso la via della montagna e pianteremo fiori che saranno per tutti, o per nessuno.
Mattia, Brigata Lena-Modotti
* foto di Giacomo Fausti
Tag:
brigata lena-modotti brigate per l'emergenza brigate volontarie coronavirus covid19 emergenza Lambretta metropoli Milano povertà precarietà quartieri solidarietà. periferia
Siete stati e siete grandi, l’ho già detto.
Così come ho già detto, che finché ci sarà gente capace di sentire in sé il dolore, la difficoltà, il bisogno, degli altri: non ci sarà profitto, non ci sarà mercato, che potrà spegnere la solidarietà, che potrà nascondere la realtà.