Como: tra controlli di Polizia e respingimenti
Le notizie su internet girano veloci. Non sempre si portano dietro verità, ma a volte sì.
L’intervista a Karim, nome di fantasia di un giovane eritreo fermo a Como San Giovanni, pubblicata su alcuni siti e capace di invadere il web e le pagine utenti di molti social network presenta elementi confermati dai racconti di tante e tanti. Karim ha raccontato il suo fermo operato dalla polizia svizzera mentre cercava di attraversare il confine italo-elvetico.
Si scopre che nella vicina confederazione ci sono molti “bunker” sotterranei, ovvero stanze divise per sesso e poste sottoterra. Stanzoni e non gabbie. I migranti fermati a Chiasso vengono caricati su furgoni che li portano in questi luoghi angusti. Le persone non sanno dirci se sono carceri, questure, o altro. Chi ha provato a passare il confine però descrive un iter molto simile, ripetitivo, ossessivo. Sul treno arriva la polizia, la polizia chiede i passaporti, i passaporti non ci sono e allora la polizia fa scendere dal treno, si viene portati in un primo spazio dove si viene interrogati, perquisiti e vengono prese le impronte. Ma non finisce tutto, si viene portati in una stanza più piccola, e li spogliati e perquisiti ancora. Con una lettera alla città, scritta il 10 Agosto, i migranti della stazione San Giovanni di Como avevano già denunciato queste pratiche. Si può leggere in un passaggio: “Durante i controlli veniamo costantemente sottoposti a umiliazioni, costretti a svestirci, senza separazione di genere. Ci hanno tenuti in piccole stanze per più di un giorno, senza cibo, acqua né alcun supporto legale. Infine ci hanno rispediti al punto zero, nel Sud Italia, separando famiglie, amici e rendendo le nostre vite ancora più difficili. Ci sta a cuore che queste pratiche che violano la nostra dignità giungano all’attenzione di tutti in modo che chi arriverà dopo di noi non debba subire lo stesso trattamento”.
Anche l’assenza di cibo e acqua nelle ore di detenzione non è una cosa raccontata solo da Karim. Dopo il fermo si torna in Italia e si viene assegnati alla polizia di frontiera. Se si è fortunati, ci dicono, si riesce a tornare a Como. Se no, invece, si viene caricati su autobus che con in decine di ore riportano a Sud. Meta preferita Taranto. Qui nuovamente identificati e poi lasciati, abbandonati al proprio destino. Un ragazzo ci racconta di essere stato rispedito a Taranto 4 volte e 4 volte è ritornato a Como. Questi spostamenti forzati, che potremmo chiamare anche deportazioni, sono comuni a tutte le situazione di frontiera nel nostro paese. ASGI, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, sta provando a capire come vengono decisi gli spostamenti, e in base a quale legge o accordo giustificati.
Nella giornata di mercoledì, alla stazione di Como, quando si è sparsa la notizia della deportazione di 48 migranti da Ventimiglia al Sudan partendo da Torino la faccia delle donne e degli uomini lì accampati ha cambiato forma e colore, la stanchezza ha lasciato il posto alla preoccupazione e alla paura. In quei volti si dipinge tutta la violenza degli accordi di Dublino, l’assurdità della fortezza europa e l’arroganza di voler fiaccare i sogni di salvezza.
Andrea Cegna
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