Indice di persistenza

La rivoluzione comunitaria e il municipalismo libertario.

“la presunzione che ciò che esiste debba necessariamente esistere è l’acido corrosivo di ogni pensiero immaginativo”

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Viviamo oggi in un presente complesso in cui gli attacchi da cui ci dovevamo proteggere diventano metodo e legge, creando una distanza siderale tra corpo politico istituzionale e sovranità popolare. La democrazia classica è ormai delegata alla rappresentanza burocratica di quei soggetti professionali che spesso fanno corrispondere le loro identità politiche a quelle dei grandi interessi economici. Si è persa nel tempo quell’utopia di costruire una politica ecologica e organica per lasciare spazio alla sua formalità e struttura (nella raffigurazione verticale del termine). La metropoli in cui viviamo e i territori che attraversiamo sono la cartina tornasole di questo processo di estrazione della decisione rispetto alla comprensione comune e all’agire collettivo: da qui scaturisce la necessità di de-localizzare il potere, spostando gli ambiti decisionali in contesti sociali, e di orientarsi ad una politica decentrata e confederale.

Nel quadro brevemente descritto, dove le matrici predatorie sono ormai meccanicamente implacabili, occorre trovare un modo per modificare radicalmente la società. Nel cercare di comprendere come sia possibile un agire rivoluzionario oggi, non possiamo che riflettere su quanto sia necessario destituire lo Stato-nazione e costruire un municipalismo libertario che possa permettere ai territori di confederarsi nel meccanismo immaginativo della comune delle comuni. Basta guardarsi intorno per comprendere quanto la disaffezione alla politica sia una parabola ascendente e quanto la centralizzazione della decisione sia deleteria e distonica rispetto alla volontà comune e di riappropriarsi della decisione. I territori che attraversiamo hanno, come teorizza Bookchin, un indice di persistenza che mai si è sopito e che ora, nel divenire rivoluzionari, diventa una sistema di propulsione e cambiamento radicale. Cos’è l’indice di persistenza. “in modo intuitivo la gente sta cominciando a dare forma a proprie istituzioni per esprimersi nell’ambito pubblico, e lo fa con tale ostinazione che è facile prevedere come la politica localista sia destinata a diventare una forza irrefrenabile. Oltretutto la natura, spesso effimera di molte di queste istituzioni e organizzazioni di base non va letta come indice di insuccesso ma al contrario come indice di persistenza” (Bookchin, 1993).

Ci sono molti interrogativi nel poter immaginare un sistema che proponga un’alternativa reale, partendo anche dalla non-volontà di confluire o in un sistema capitalistico classico e nemmeno rifugiarsi in un sistema municipale chiuso, dove non esiste dialogo tra i vari soggetti e dove il federalismo viene utilizzato come motore di esclusioni razziste e xenofobe. Come far sì che questa apparente uniformità di persistenze locali costruisca un soggetto in grado di non divenire Stato ma bensì di riappropriarsi del proprio auto governo? Come costruire un meccanismo che non sia localista ma che preveda un’interazione molto più ampia? Come far sì che la politica e la sovranità possano tornare nelle assemblee cittadine? A tutti questi interrogativi non abbiamo la presunzione di dare una risposta certa, ma proveremo a costruire una narrazione che ci indichi quale potrebbe essere la via più giusta, partendo proprio dai territori in cui lottiamo quotidianamente.

Costruire comunità

Viviamo in una fase storica in cui i movimenti di massa sono pressoché nulli, soprattutto se ci limitiamo ad osservare il nostro contesto geografico (Stato). La ridefinizione dell’agire politico è ormai delegato in gran parte nelle interazioni digitali: la politica partitica nostrana spazia dall’immenso populismo del M5S alla spropositata quantità di moralismo da social network, mentre al di fuori del codice binario l’alterazione sistemica della politica apre ancor più la strada al sistema neoliberista. Nel contempo, le nuove linee politiche “da destra” riescono a coagulare consensi intorno a poche chiare parole d’ordine, offerta politica vincente in tempi di incertezze e diffusa miseria. Sul piano cittadino, la politica di rappresentanza cerca sempre di sussumere i movimenti, proponendo (nello specifico il caso di Milano e la sua giunta arancione) un programma di cittadinanza attiva che assorbe le resistenze che cedono al ricatto istituzionale e ne fa motivo di vanto della giunta comunale: costruisci, crei e resisti per essere immedesimato e dichiarato come successo da chi opprime e debilita il nascere i movimenti. Per divenire pilastro del successo (immeritato) di altri soggetti, incapaci di assumersi la responsabilità e di avere il coraggio di fare scelte di parte. Il paradosso dei paradossi. Con questo non vogliamo risultare miopi e screditare il lavoro di chi, seppur soggetto associativo legalmente costituito lavora e produce conflitto, cultura e aggregazione nei territori. Nella critica partiamo proprio dalla relazione con questi stessi soggetti, per descrivere le difficoltà che questi hanno nel poter sopravvivere senza restare schiacciati nel centralismo della decisione rispetto al futuro dei territori.

Esiste però una persistenza, legata a quei soggetti di svariate forme e identità che in maniera non indotta cercano di avvicinarsi tra loro, scoprendo il senso di comunità. Sono contesti in cui non vige il pensiero unico e in cui le particolarità di ognuno diventano il valore aggiunto che permette a questi soggetti di aprire una breccia in questo oscuro momento storico. Esse rendono in questo modo reale la propria essenza, e si distinguono dal potere in quanto creano decisione e compiono le proprie scelte tutelando il pensiero e la posizione di tutti. Scegliendo collettivamente come agire. Sta proprio in questa distanza la necessità di vivere in un’autonomia e un autogoverno che risponda in maniera capillare alle esigenze territoriali. In questo riconosciamo la differenza politica tra amministrazione statale e municipalismo. Non ci può essere una compartecipazione dei due soggetti, perché i meccanismi decisionali centrali e la necessità di decentrare la decisione sono l’uno l’antitesi dell’altra. L’indice di resistenza è tale che, nonostante la politica istituzionale cerchi di sussumerli e nonostante la fase storica difficile e cupa, le comunità resistenti perseguono obiettivi chiari e mantengo dei presidi di libertà e partecipazione decisionale all’interno dei vari nodi metropolitani e rurali. Noi, vivendo e agendo spesso come e tra questi soggetti, abbiamo il compito di coagulare le resistenze e confederarci con i vari attori in campo: unendo le particolarità si può creare un soggetto più ampio e autonomo che garantisca un’autonomia dallo statalismo.

Per evitare di immaginare un divenire nichilista dobbiamo interrogarci su come si possa momentaneamente convivere con il governo della città, aprendo spazi di discussione molto più ampi che possano comprendere anche modelli istituzionali, ma che abbiano comunque l’aspettativa di costruire una comunità in opposizione allo statalismo. Solo così, senza incorrere nella cecità politica e utilizzando con cautela le varie contraddizioni che ci si pongono di fronte, possiamo e dobbiamo iniziare a costruire delle comunità politiche nei nostri territori. L’oggi lo richiede, come l’indice di persistenza richiede di divenire un indice rivoluzionario e insorgente.

Confederare le comunità

Possiamo dire con chiarezza che la costruzione di comunità territoriali è comunque una soluzione parziale nel divenire rivoluzionari. Le comunità che scelgono di unirsi e praticare solo ed esclusivamente una politica localista sono destinate a chiudersi nei propri territori, nella migliore delle ipotesi isolandosi, nella peggiore cedendo ad impulsi razzisti e xenofobi. È proprio per evitare che l’autodeterminazione coincida col rifiuto di chi sta “al di fuori” che nasce la necessità di confederare le varie comunità che si costruiscono nei territori e con essa la necessità di avere come unico orizzonte possibile la costruzione di comunità che nascono insieme confederate. Questa aspettativa può essere letta dai più come un’irrealizzabile utopia, poiché ci si trova a ragionare su un piano di autogoverno localista e municipale in un momento storico in cui l’amministrazione, la proprietà, la produzione, le burocrazie e i flussi di potere tendono alla centralizzazione.

“la concezione secondo cui le comunità decentrate sono una sorta di “atavismo” pre-moderno, o meglio anti-moderno, riflette l’incapacità di riconoscere che una comunità organica non deve necessariamente essere un organismo in cui le componenti individuali sono subordinate all’insieme collettivo, e rimanda a una concezione dell’individualismo che confonde l’individualità con egoismo” (Bookchin).

Se le comunità decentrate sono dunque l’ambito in cui l’individualità dei singoli è messa a valore in un’organicità complessiva, esse sono anche la chiave per trasformare quell’”utopia” in materialità, poiché rappresentano la propulsione per la confederazione di comunità politiche e sono di fatto il tentativo di costruire una complessità che impedisca una regressione autoritaria e centralista. Bisogna confederare le nostre comunità, per porre le basi di un nuovo sistema in grado di non sviluppare un altro potere statale, bensì poter “governare” un territorio e non amministrarlo. Confederare le comunità significa saper leggere complessivamente la realtà, partendo dalle singole specificità dei luoghi per mantenerne una visione attenta, etica ed ecologica. Costruire comunità in questo senso significa per noi anche confederare tutte le forme di lotta che si spendono per la creazione di una vita migliore, ognuna con le proprie forme di vita e rivoluzione da attuare. Per definizione di confederalismo democratico non c’è forma di comunità politica più ampia, più forte, più giusta di altre. Non pensiamo nemmeno che la forma di comunità sia l’unica plausibile per attuare le rivoluzioni di cui abbiamo bisogno.

Un approccio marxista al municipalismo

Il confederalismo come finora descritto non è necessariamente antitetico rispetto a una chiave di lettura marxista ma anzi ne è supporto e complemento nell’immaginare l’abbattimento del sistema statale e delle logiche neoliberiste. È infatti Lenin stesso ad affermare che lo Stato come lo conosciamo non esiste dall’eternità ma è sorto a causa della divisione della società in classi, e che pertanto esso cesserà di essere una necessità nel momento in cui cadrà questa divisione: la nuova società, riorganizzata la produzione in base a una libera ed eguale associazione di produttori “relegherà l’intera macchina statale nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo” (Lenin, 1918). Se il capitalismo ha spesso unito e diviso comunità sulla base di confini arbitrari, seguendo gli interessi economici della classe padronale e si è imposto su di esse minando la loro capacità di autogoverno, una ridefinizione anche territoriale degli ambiti decisionali non è soltanto auspicabile ma necessaria all’abbattimento dello Stato così come lo conosciamo. Il municipalismo libertario può dunque diventare un metodo per ricostruire quelle persistenze sempre più atomizzate dalla distruzione del tessuto sociale ad opera del capitalismo poiché permette di rideterminare l’ambito politico e organizzativo: esso costituirà un potere “delocalizzato”, autonomo ma non autistico rispetto alla collettività che lo crea e in grado di collaborare all’abbattimento delle classi e quindi dello Stato. Saranno dunque queste “comunità resistenti e persistenti”, dove il sentimento comunitario è riuscito a resistere alle barbarie del capitalismo, a creare le basi per una riorganizzazione che abbatta il sistema istituzionale di delega e di sopraffazione di un individuo sull’altro.

Ecologismo sociale

Se fino ad ora questo documento si è concentrato sull’essere umano come vettore di cambiamento, la nostra analisi non può però prescindere da una visione olistica che lega l’uomo e la donna all’interno dell’ecosistema che vivono. La crisi ecologica che caratterizza il nostro tempo è dovuta a una crisi sociale molto radicata, prodotta dal sistema capitalistico, che sfrutta e saccheggia il territorio per ottenere il massimo del profitto. L’uomo vuole dominare sulla natura e sull’animale, tanto quanto vuole dominare sugli altri esseri umani. La soluzione è una profonda e radicale trasformazione sociale che renda possibile una società ecologica, il cui scopo deve essere la ricerca di quell’equilibrio tra progresso e cooperazione reciproca tra le comunità e l’ecosistema. Il rispetto per la natura che ci circonda, l’auto-organizzazione, la continua ricerca di metodi alternativi di sviluppo e di conseguenza di consumo, rappresentano la formula per una metamorfosi culturale che può portare una comunità radicata nel proprio territorio ad attuare una reale rivoluzione ecologica e anticapitalista.

ZAM – Zona Autonoma Milano

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