Apologia dell’Otium
Sul pensiero dominante.
Trovo necessario porre la mancanza di basi solide come premessa per il testo che segue; innanzitutto per chiarire una totale inesperienza concreta in campo educativo e pedagogico da parte mia. Non sono un pedagogo e tantomeno mi ritengo un esperto in scienze umane al punto da vendere le mie considerazioni come esatte. In secondo luogo è giusto premettere che non sono verità scientifiche quelle che cerco di dimostrare, non solo quindi a causa della mia mancanza di competenze, ma anche per una scelta di metodo nella ricerca. La validità di certi tipi di educazione, perché è di questo che proverò a sciogliere le più comuni contraddizioni, è già confermata in ogni caso dai dati esposti dalle migliori università e centri di ricerca statistica del pianeta. Un iter totalmente metodistico potrebbe infatti limitare notevolmente gli orizzonti raggiungibili con una maggiore libertà esplorativa, è quindi con spirito del tutto speculativo che mi trovo a raccogliere le seguenti riflessioni, tantomeno ci sarà presunzione alcuna.
E’ evidente che si sta facendo fatica a seguire le trasformazioni riguardanti la scuola, i giovani e il lavoro in maniera storica, complessiva, universale. Forse avere un giudizio complessivo è facoltà di chi ha esperienza decennale nel campo, che sia lavorativo o educativo, e di chi ha scelto di dedicare la propria vita allo studio storico delle trasformazioni economiche o scolastiche, ma trovo importante che certe evoluzioni siano sotto gli occhi di tutti, soprattutto se riguardano i giovani e quindi il futuro. Certo non è necessariamente vero che se ci affidassimo a chi questi temi li mastica da tempo impareremmo a conoscere universi del tutto estranei; molte nozioni sparse sono infatti ormai totalmente riconosciute e ripetute da chiunque in qualunque ambito sociale. Sto parlando di luoghi comuni sulla “globalizzazione” che impera, sul capitalismo come unico ordine dominante, sui “poteri forti”, sulla scuola utilizzata come settore di occupazione per insegnanti, oltretutto degradata dal punto di vista infrastrutturale, sulla completa assenza di prospettive per i giovani italiani e chi più ne ha più ne metta. Detto questo, nonostante sia piuttosto intuitivo riconoscere in maniera lampante le tendenze generali come giuste o ingiuste, vere o false, durature o effimere, resta incredibilmente difficile districarsi nei suoi meccanismi più profondi e incontrollabili.
E’ necessario porsi quindi le giuste domande, a cominciare da quella sul senso della scuola. Ponendo questa come secondo nucleo di crescita dopo la famiglia, si pensa a un sistema necessario per la determinazione del futuro del soggetto, quindi come Locus importante, se non indispensabile per la costruzione della propria libertà attraverso la conoscenza. Come la famiglia aiuta a scatenare dall’essere infante per consentire di prendere in mano la propria vita e cominciare a comparire nel mondo, a esser-ci verso l’ignoto, la scuola ha il compito di sradicare dal pensiero unico naturalmente infuso dall’ambiente familiare e regalare qualcosa di sconosciuto. A mio parere la scuola e il suo ministero dovrebbero caratterizzarsi come fabbrica di speranze, senza le quali non ci sarebbe motivo di studiare o frequentare. Basta guardarsi un po’ intorno per capire però che in Italia le opportunità non sono certo più quelle che avevano i nostri genitori o che si riuscivano a intraprendere con un normale percorso di studi e apprendistati: si ascolti quello che diceva nel 2012 un noto economista, casualmente diventato anche Presidente del Consiglio, Mario Monti, per capire che i giovani dovranno rinunciare alle proprie vocazioni se vorranno sopravvivere, dato che l’unico modo sarà “reinventarsi” e che l’unica via è adattarsi. Se vogliamo rivolgerci al futuro è quindi il presente a dover essere guardato bene in faccia, già oggi il posto fisso o un lavoro ben retribuito a tempo indeterminato sono introvabili, figurarsi un impiego in ciò che amiamo fare. Il futuro per il giovane di oggi non è più una promessa. Non essendo reale la prospettiva, ogni tentativo della scuola sarà riconosciuto subito come falsa promessa e nessuno crederà più che abbiamo la completa libertà di determinare il nostro futuro oppure che per avere qualcosa o essere qualcuno basta volerlo. Tornando al quesito principale si deduce che la scuola non ha più un senso. Non lo ha per il dirigente d’azienda o il ministro che ne devono trarre dei profitti, e neanche per lo studente che incapace di muoversi in un senso diverso se non quello causale arriva, oltre ad abbandonarla, la scuola, a invocarne la morte, come è oltretutto successo ultimamente.
Se quella che osserviamo è una tendenza globale, è in questi termini che dobbiamo dedurne il tentativo dei governi nostrani di adattarsi, cosa facile perché non vi sono grandi ostacoli. Se l’unico ostacolo potrebbe essere la scuola, anche questa ha dimenticato la sua essenza. E poiché il Ministero è direttamente dipendente dal governo non c’è possibilità di rendere la scuola dipendente dalla Costituzione, quindi libera e autonoma. Per dimostrare che non si sta parlando di semplici giochi faziosi o modelli di pensiero discordanti ma di qualcosa di molto più grande e travolgente proverò a citare alcune manifestazioni ed episodi che a me hanno dato l’impressione di una irreversibilità ormai completa di questo sistema automatizzato. Per chi ancora non se ne fosse accorto il valore per il quale verrai pagato al lavoro in futuro non sarà più il Tempo, in termini di tempo della tua vita che dedichi allo specifico lavoro, bensì la Prestazione, il risultato ottenuto in un determinato arco di tempo. Così il giovane fresco di studi appena vorrà intraprendere una professione dovrà entrare in competizione con i suoi colleghi, o meglio concorrenti, per ottenere migliori risultati e quindi guadagni, distribuiti in forma di bonus e gettoni. Questa macchina è mascherata nella sua assurdità dalla parola Meritocrazia, che dovrebbe giustificarla: tale prevede però di partire dalle stesse condizioni umane, dalle stesse capacità di linguaggio, dalle stesse opportunità sociali per consentire il movimento in un arcipelago frenetico di tale portata. Già oggi sono i “Riders” a costituire l’esempio più diffuso dell’attuale mentalità, ma si potrebbe risalire a secoli fa con gli impieghi a cottimo: per il contemporaneo distributore su due ruote all’aumentare delle consegne di pasti conseguite aumenta il compenso. E la tutela dei diritti come la sicurezza sul posto di lavoro non è neanche posta a tema. Allo stesso modo un giovane imprenditore che fonda una start-up deve sacrificare ogni singolo istante e piacere lottando inesorabilmente con tutte le sue forze per tentare di far restare a galla la sua impresa, e sarebbe pure giusto dato che in questo caso si combatterebbe per la propria idea o passione: “Per chi intraprende cose belle è bello anche soffrire” ricordava Platone, se non fosse che 9 neoimprese su 10 falliscono nei primi 3 anni di attività per cause di forza maggiore. Si lotta quindi dalla stessa parte, sia se si è impiegati, sia se si è imprenditori, proletari o padroni, servi o signori, contro un unico individuo anonimo, il mercato, la tecnica, contro il tempo, non si capisce ancora bene, ma si combatte, e il senso sfugge.
Nonostante ciò che sarebbe logico pensare anche la scuola non esita ad adeguarsi a questa logica, ma ormai è naturale. Nonostante ci si autoconvinca che il Liceo Classico sopravvive come oasi per la sua inutilità immediata contro l’inno alla crescita, il culto per la flessibilità, l’eccellenza, anche questo geniale esperimento educativo per recuperare le conoscenze e i saperi più antichi ed eterni trema e collassa di fronte alla fragilità di argomenti, alla vuota motivazione del progresso, che come spiegava bene Lyotard nella sua “Condizione Postmoderna” riconosce la guerra al pensiero narrativo come sostituzione dei fini con i mezzi dell’azione, ma non è l’unico. Allora anche nel baluardo di orgoglio tutto italiano del Classico al costo di apparire su qualche testata nazionale si premiano e coccolano le eccellenze lasciando fuori i “secondi”, forse un po’ menomati, vista l’irrisolvibile condizione di abbandono in cui versa chi ha più difficoltà, e oltretutto viene ostacolato, falciato, bocciato, anche due volte. Se il fine piuttosto garantista era quindi dare a tutti gli strumenti per crescere con la possibilità casuale di comparire per il buon lavoro svolto, lo è diventato apparire a ogni costo risolvendo la diversità umana del soggetto in omologazione definitiva: chi già eccelle continuerà a farlo e chi ha bisogno continuerà ad averne. La pluralità delle intelligenze non sarà mai riconosciuta in una scuola in cui il metodo di valutazione si limita a un binario: lo studente sarà infatti salvabile o irrisolvibile, efficiente o inefficiente. Per soffermarci su un esempio ancora più attuale basta osservare le ultime riforme scolastiche, volte a incrementare quantitativamente le materie e i programmi da affrontare, per capire che “Sapere molte cose non ti educa” (πολυμαθίη νόον έχειν οὐ διδάσκει; DK b40). I limiti di questo incremento esagerato lo si nota anche nel nervosismo che aumenta, non serve Eraclito per ricordarlo.
Ciò non basta per comprendere che il culto per un modello anglosassone è inculcato da tutte le parti? Si legga un semplicissimo volantino di invito all’open day o un piano per l’offerta formativa di una qualunque scuola superiore per vedere che il fine ultimo degli insegnanti è la “formazione” di individui pronti a sbandierare la quantità di competenze di “problem solving” acquisite in forma di “skills”. E il depliant e il sito della scuola saranno pomposamente colorati e fiammeggianti per essere più “giovani”, per evitare lo sconveniente di una grafica troppo semplice e sobria che il consumatore, nella veste di genitore, potrebbe non trovare adeguata al percorso di studi di un figlio troppo “smart”. Meglio coltivare la “superficie” con un pizzico di divertimento (de-verto), piuttosto che il “profondo” con tanto di inter-esse…sussurra la nuova musa Performance. Sembra scomparire totalmente la natura del Classico che come suoi fondamenti ha proprio il greco e il latino, quasi a volerne tacere le virtù per vergogna. Ci si rassicura allora con la storia che si fa anche tanta matematica e che molti studenti vanno a immatricolarsi a medicina. Gardini su Il Sole 24 Ore ricorda però molto bene che le “humanities” sono richieste in maniera estrema all’estero, nonostante già in India e Cina si sia passati allo studio della sola matematica pura come modello indiscutibile di scuola. Sarà allora premura della scuola italiana attuale il munirsi di corsi di “aggiornamento” per professori tenuti da maestri di marketing o esperti di nuove tecnologie in campo di comunicazione e figure decisive come il “life coach”, ultima trovata per diffondere ancora più sistemi di tecnica monoschematica secondo la programmazione neuro linguistica. Mi ritengo curioso di scoprire chi si farà ancora paladino della libertà di insegnamento dopo questi ennesimi colpi alla Costituzione. Baricco non esita a mostrarci la natura del “Game” nella sua nuova pubblicazione, probabilmente è soltanto il desidero di apparire più moderni che caratterizza tutta questa corsa agli strumenti tecnologici all’interno delle mura scolastiche, la cui utilità e discutibile almeno quanto l’utilità stessa come concetto. Il mono-uso di PowerPoint da parte di molti ha decisamente annichilito qualsiasi varietà di linguaggio. Per non parlare dello spreco di risorse e del fatto che ormai anche i pionieri di internet come Clifford Stoll attribuiscono all’eccesso di informazione una delle cause principali di analfabetismo funzionale. Se abbiamo ancora dubbi sul fatto che il liceo sia l’ultimo luogo per lo sviluppo dell’indipendenza intellettuale, secondo me è importante tenersi lontani da tentazioni come l’alternanza scuola-lavoro, volte a soppiantare qualsiasi slancio di creatività, può bastare Gramsci a ripeterlo nei Quaderni, in piena difesa di un sapere squisitamente descrittivo. Ed è una conoscenza in netta contrapposizione a quella frettolosa e polimaterica del nozionismo da Buona Scuola; immune da presidi-sceriffo e test a crocette, che sa bene che se la società richiede alte competenze di adattabilità la posta in gioco non è quella di una chiacchierata. Poter determinare l’utilizzo del proprio tempo è facoltà di uomo libero. La posta in gioco non viaggia sulla qualità cromatica dell’istruzione che si può ricevere. E’molto più alta: “Gli altri uomini (che non sono liberi) parlano sempre con scarsa disponibilità di tempo, perché l’acqua della clessidra, scorrendo, li incalza, e non è loro concesso fare discorsi dell’argomento che più desiderano ma, (…) al di fuori di questi limiti non è lecito parlare. L’essere schiavi fin da giovani toglie loro la capacità di crescere moralmente, la fermezza nel comportamento e la nobiltà del sentimento, costringendoli ad agire in modo contorto (…)”. (Teeteto 172-173). E Platone non sbaglia mai.
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