Autonomia operaia e questione del potere – Un dibattito ancora aperto

Recensione della terza edizione aggiornata di “Autonomia Operaia – Scienza della politica, arte della guerra dal ‘68 ai movimenti globali” di Emilio Quadrelli, pubblicato da Interno4 Edizioni, uscito in ebook il 4 aprile e in cartaceo oggi (acquistabile qui).

Per chi scrive il nome di Emilio Quadrelli è indissolubilmente legato ad “Andare ai resti” (DeriveApprodi, 2003), probabilmente il miglior libro sul mondo della detenzione mai prodotto in Italia. Inutile dire quindi il grande interesse quando mi è capitata tra le mani, quasi in anteprima, la terza edizione di “Autonomia Operaia – Scienza della politica, arte della guerra dal ‘68 ai movimenti globali” pubblicata da Interno4 Edizioni. Un libro che va a inserirsi a pieno titolo nella narrazione di quella che è stata l’esperienza dell’autonomia (con la a sia minuscola che maiuscola) nella storia del nostro paese e cui la collana “Gli autonomi” (Deriveapprodi) sta dando un altro contributo.

Come in “Andare ai resti” anche questo libro è caratterizzato dall’apporto fondamentale delle testimonianze dirette di chi ha vissuto un intero ciclo di lotte.

Il libro inizia con un nuovo capitolo dedicato al 7 aprile. Quindi un inizio che è però anche una fine. Sì, perché il 7 aprile 1979 parte la prima grande operazione repressiva contro Autonomia che modificherà profondamente quella che sarà la storia successiva delle esperienza politiche e sociali legate a quel nome.

Il 7 aprile viene visto come il tentativo in gran parte riuscito, da parte del Partito Comunista Italiano, di far fuori una volta per tutte quei rompicoglioni che predicavano (e razzolavano) alla sua sinistra sin dagli anni Sessanta. Distruggere una volta per tutte qualsiasi ipotesi conflittuale con un qualche seguito di massa fuori dal “più grande Partito Comunista dell’Europa occidentale”.

Questa operazione nasce in qualche modo da una forma di crisi e debolezza vissuta dal PCI. Dagli anni Sessanta in poi i quadri militanti e dirigenti del partito smettono di essere soggetti trainanti e protagonisti delle lotte sociali, cosa che erano stati fino agli anni Cinquanta. Si ingenera dunque una vera e propria mutazione genetica e antropologica che va in contraddizione con uno dei comandamenti del buon militante comunista quasi da sempre ovvero che “i comunisti stanno là dove ci sono le lotte”.

Le basi teoriche dell’autonomia stanno invece in un’interpretazione eretica (ma mica tanto in realtà) di Lenin visto non come uno stantio testo sacro con tutti i suoi dogmi inviolabili, ma come fautore di un’azione e dinamismo continui. C’è quindi il rifiuto di diventare chiesa come invece erano i vari partiti comunisti con le relative liturgie, ma una sperimentazione costante nella vita pulsante di tutti i giorni con tutte le sue contraddizioni e perché no, anche ciò che in essa non piace.

In fondo, a più di 40 anni dall’operazione 7 aprile, anche l’idea che il ceto politico del PCI sarebbe diventato strumento protagonista della controrivoluzione neoliberista è stata anticipatrice e azzeccata.

Quando si parla di Autonomia si pensa sempre agli anni Settanta, ma l’autonomia con la a minuscola si manifesta già nel 1960 con la rivolta di Genova contro il Congresso del MSI e si palesa per tutto il decennio con una serie di fragorosi episodi di conflitto e di rottura come Piazza Statuto nel ’62 e Corso Traiano nel ’69.

Se c’è quindi una mutazione dei quadri del PCI, c’è parallelamente un progressivo distaccarsi antropologico prima che politico, dalle strutture del Partito (con la P maiuscola) e da tutto il loro portato da parte di ampie fette di proletariato.

Dopo l’Autunno Caldo tutti i primi anni Settanta sono anni di insubordinazione operaia  che culmina coi fazzoletti rossi alla FIAT nel 1973. Nello stesso anno il Segretario del Partito Comunista Italiano Berlignuer, dopo il Golpe in Cile, lancia la politica del compromesso storico con la Democrazia Cristiana.

Proprio tra il ’73 e il ’75 in molti, nonostante le forme di contropotere operaio nelle fabbriche, si rendono conto che sul luogo di lavoro, più di tanto, non si riesce più a strappare al padronato e anzi, di lì a poco si andrà sulla difensiva. La battaglia diventa quindi tutta politica sul piano del potere.

In questa fase emerge con forza, soprattutto nei quadri intermedi autonomi, la volontà di sviluppare il ragionamento sull’armamento e sull’illegalità di massa.

E’ nella fase tra il ’74 e il ’76 che l’Autonomia subisce una crescita esponenziale vedendo confluire al suo interno forze, energie ed intelligenze provenienti dalla crisi e conseguente diaspora dei gruppi extraparlamentari di sinistra, soprattutto Lotta Continua.

Ed è proprio a metà degli anni Settanta che accadde un fatto rilevantissimo e delle cui devastanti conseguenze ci si sarebbe resi conto solo progressivamente e col passare del tempo. Stiamo parlando dello svuotamento, attuato dal capitale, della figura stessa dell’operaio-massa come figura centrale del processo rivoluzionario. Uno svuotamento attuato attraverso il processo di ristrutturazione.

Delocalizzazione ed esternalizzazione dei processi produttivi sono le armi con cui viene messa in atto la frantumazione della classe operaia italiana. Un’onda lunga che si paleserà con la sconfitta (definitiva) nella battaglia dei 35 giorni dell’Autunno ’80 alla FIAT di Torino.

Il capitale, con intelligenza, toglie il terreno sotto i piedi alle prospettive rivoluzionarie sottraendo all’operaio-massa la sua centralità politica.

Interessante, in questo scenario, la considerazione fatta da Quadrelli che vede l’esplodere del combattentismo dopo il ’77 sotto la luce di una reazione in qualche modo difensiva. La lotta armata non si scatenerebbe perché, come dice una frase abusata, “molti avrebbero scambiato il tramonto con l’alba” rivoluzionaria, ma proprio perché, in tanti, si erano resi conto che si stava arrivando proprio al tramonto di un’era. Combattere sarebbe quindi un estremo tentativo per resistere e “far pagare” un conto salato alla controparte.

La lotta armata si sarebbe quindi prodotta come risposta alla battaglia in corso, una battaglia la cui posta in gioco era altissima: nient’altro che la sconfitta del movimento operaio italiano come forza politica organizzata capace di condizionare la società.

Mentre l’Autonomia aveva saputo leggere e anticipare questa crisi con la riflessione sull’operaio sociale non sapendo però come rilanciare politicamente la sfida, i gruppi armati come Brigate Rosse e Prima Linea vengono scompaginati proprio dalla scomparsa, in pochissimi anni, del soggetto sociale centrale cui la loro proposta rivoluzionaria si indirizzava.

Come spesso succede nei momenti di crisi esplodono contrasti interni e scissioni. Ognuno cerca di dare la risposta che crede migliore. Ognuno pensa di avere la formula magica per ripartire. Ma i risultati sono scarsi. Quadrelli analizza puntualmente le varie elaborazioni teoriche dei vari spezzoni della lotta armata all’alba degli anni Ottanta. Riflessioni che però non porteranno a nessun rilancio.

Il repentino cambiamento della società travolge però tutto e tutti. Non solo i gruppi rivoluzionari, ma lo stesso Partito Comunista che arriverà al triste crepuscolo a fine anni Ottanta e poi, la stessa socialdemocrazia.

Di fronte a una sconfitta epocale l’orizzonte della conquista del potere politico viene totalmente espunto dal dibattito.

In coda al libro c’è poi la pubblicazione per intero dell’unico numero di “Linea di condotta”, una rivista di movimento promossa da quegli elementi fuoriusciti da Potere Operaio che non decisero di fare parte di “Rosso” e dalla minoranza (Corrente e Frazione) uscita da Lotta Continua dopo lo scontro sviluppatosi attorno al congresso del gruppo nel 1975.

Pur essendo due riviste importanti nella storia dell’Autonomia “Rosso” e “Linea di condotta” divergevano su due punti importanti: il ruolo dell’organizzazione e la figura sociale di riferimento delle lotte. Mentre “Rosso” si concentra sulla nuova figura dell’operaio sociale non ancora chiaramente declinata però, “Linea di condotta” rimane focalizzata sulla centralità operaia. Proprio all’interno di “Linea di condotta” inizierà il dibattito teorico e pratico che darà vita a “Senza Tregua”.

In un epoca di sconvolgimento come questa dell’epidemia di Covid19 il libro di Quadrelli è uno strumento interessante per capire il passato e avere degli spunti per muoversi in questo “anno zero”.

Estratto capitolo 7 aprile Quadrelli Autonomia

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Una risposta a “Autonomia operaia e questione del potere – Un dibattito ancora aperto”

  1. Luca Mechini ha detto:

    Se Tronti ha ammesso che dopo Marx della classe operaia non si è più saputo nulla , è difficile non tenerne conto in sede di determinazione teorica del Nuovo soggetto antagonista . Forse oggi lo si può meglio individuare tra le maglie dello scontento generalizzato, apparentemente interclassistico , verso la forma ipertecnologizzata dello Stato burocratico del Capitale .

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