Gangs of New York o anche del “Non ci sono più i gangster di una volta”
Fino a qualche anno fa, se qualcuno avesse parlato di “Gangs of New York”, il pensiero sarebbe subito andato ai feroci criminali italiani (ma anche ebrei) degli anni del proibizionismo, quelli magistralmente documentati da Sergio Leone in “C’era una volta in America”. Oppure, alla bande giovanili dell’indimenticabile “I guerrieri della notte” (titolo originale “The Warriors”), parte dell’educazione sentimentale di ogni militante di movimento che si rispetti.
Poi, nel 2002, ci ha pensato Martin Scorsese a riaggiustare le lancette dell’orologio riportandole indietro di cent’anni con la sua pellicola “Gangs of New York”, che prende spunto proprio dall’omonimo libro di Herbert Asbury, pubblicato negli States nel 1927, arrivato in Italia molti anni dopo grazie a Garzanti e ripubblicato quest’estate da Mondadori. Libro ambientato non nei ruggenti anni Venti o nei decadenti anni Settanta, ma nel secolo precedente quando, a detta dell’autore, c’erano le “vere gang”.
Siamo quindi nell’America dell’Ottocento.
Un Paese che si è da poco liberato dalla dominazione della Corona britannica con la Rivoluzione terminata nel 1783.
Una Nazione, gli Stati Uniti, in costante e continua espansione.
E una delle prime sensazioni che si provano leggendo il libro di Asbury è proprio quella di una famelica, febbrile e incessante attività. Un continuo costruire, espandersi, abbattere, ricostruire e ingrandirsi ancora di più.
E così è anche lo sviluppo frenetico e disordinato di New York, il palcoscenico delle gesta dei personaggi raccontati dall’autore.
Si parte, ovviamente, dal celebre quartiere di Five Points (citato, non a caso da Scorsese), degradatissima area che si trovava sull’isola di Manhattan. Il quartiere venne costruito nei pressi di un piccolo lago, il Collect Pond, i cui lavori di bonifica furono portati avanti alla bell’e meglio con il risultato dell’emersione di una vera e propria insalubre palude. I prezzi crollarono, i ceti agiati fuggirono e i Five Points iniziarono a diventare una calamita per tutte le fasce di popolazione più povere, soprattutto per quei migranti che iniziavano a raggiungere gli States in modo sempre più massiccio incantati dal sogno americano della “Land of the free”.
Uno dei momenti decisivi della storia dalle Grande Mela è il 1834, con la nascita di due partiti politici che avrebbero perfettamente rappresentato le due anime della città: i Native Americans e l’Equal Rights Party.
I primi rappresentavano i cosiddetti “nativi”. Per lo più immigrati di origine inglese che rivendicavano il loro ruolo di “veri americani”, il che, a quasi 200 anni di distanza, fa sorridere se si pensa al fatto che gli unici “veri americani” erano i pellerossa sterminati dagli occidentali. Ma in fondo non dovremmo sorridere così tanto, se pensiamo all’attuale successo dei sovranisti con i loro concetti banali, ma sempreverdi, come “prima gli italiani”!
I secondi, invece, rappresentavano gli interessi dei migranti che, in numeri sempre maggiori, raggiungevano New York. E chi erano gli immigrati per antonomasia a metà Ottocento? Ma ovviamente gli irlandesi! Fuggiti in massa dalla repressione e dalla carestia della loro isola sotto il dominio di Londra.
Inglesi e protestanti i primi. Irlandesi e cattolici i secondi. Una miscela esplosiva cui andavano ad aggiungersi altri condimenti piccanti come i neri liberati, i primi italiani e così via.
A questi due partiti prestarono servigi e fedeltà le varie gangs newyorkesi tra cui i Dead Rabbits, capaci di condizionare intere campagne elettorali, e tantissime altre.
Chi incrementava i propri affari e i propri poteri in questo scenario esplosivo era lo spregiudicato e corrotto ceto politico della città sempre pronto a blandire, usare e proteggere le varie bande criminali per i propri scopi. Maestri assoluti di tutto ciò erano i politici di Tammany Hall. Un’organizzazione politica legata al Partito Democratico che, invece che attardarsi in superati stereotipi razzisti, capì l’immenso potenziale economico, elettorale, di manovra e politico che la continua ondata migratoria in arrivo portava con sé. Così, fornendo diverse forme assistenziali ai più poveri, li trasformò in un fedele e potente bacino di voti.
E, in fondo, i Five Points con tutta la loro miseria, criminalità e gentaglia, rappresentavano più delle zone ricche e aristocratiche la vera forza degli Stati Uniti: il meltingpot capace di dare a ogni poveraccio una possibilità e di mettere a valore (quasi sempre economico) tutte le intelligenze come tutte le mancanze di scrupoli presenti nelle ondate migratorie che di decennio in decennio hanno attraversato il Paese.
Nei racconti di Asbury facciamo la conoscenza di decine e decine di manigoldi. Veniamo a sapere, per esempio, che sull’Hudson operavano vere e proprie bande di pirati.
Tra le figure che emergono, quella di Bill “The Butcher”, criminale e figura di spicco dei nativi da cui Scorsese ha tratto ispirazione per poi assegnare la parte a un ispiratissimo Daniel Day-Lewis, il quale prima di morire, ovviamente con dei proiettili in corpo, griderà orgoglioso: “Addio, ragazzi: muoio da vero americano!”. Oppure quella geniale di George Leslie, vero e proprio re degli scassinatori e autore di alcuni memorabili colpi nelle banche del Paese. Altri personaggi meritevoli di citazione sono Monk Eastman e Paul Kelly, due gangster che dopo memorabili scontri a fuoco decisero di disputarsi la leadership criminale con un match di pugilato finito ovviamente…in parità! Il primo andò a combattere sul fronte occidentale durante la Prima Guerra Mondiale comportandosi eroicamente tanto da ricevere un funerale con tutti gli onori militari. Il secondo, che in realtà si chiamava Paolo Antonio Vaccarelli, fu poi iniziatore della successiva generazione di spietati criminali che sarebbero diventati famosi durante il Proibizionismo.
Dall’altro lato della barricata, fatta di poliziotti quasi sempre corrottissimi, troviamo il durissimo ispettore Williams, rimasto celebre per una sua frase che recitava: “C’è più legge nel manganello di un poliziotto che in una sentenza della Corte Suprema”. Una frase semplice che esprime in modo chiaro un concetto misconosciuto da molti, ovvero che il diritto sta sempre dalla parte di chi ha la forza per imporlo.
E proprio parlando di Polizia si scopre un aneddoto divertente: la vera e propria guerra che caratterizzò una fase della città, tra la corrottissima Polizia municipale e la Polizia metropolitana creata proprio con lo scopo di diminuire il livello di corruzione tra i pubblici ufficiali di New York, ma che per affermarsi dovette affrontare durissimi scontri e vicende rocambolesche.
Il cuore del libro è però la parte centrale che, in realtà, con le gang ha relativamente a che fare.
E’ la parte che descrive la rivolta di New York del luglio 1863 contro la leva obbligatoria. La più grossa rivolta urbana dai tempi della Rivoluzione americana.
Si era nel secondo anno di Guerra di Secessione e l’Unione aveva bisogno di truppe fresche da lanciare nelle sanguinose battaglie contro la Confederazione. Da qui l’idea della coscrizione obbligatoria. Che, però, tanto obbligatoria non era poiché veniva fatta a estrazione. Inoltre, chi aveva la possibilità di pagare 300 dollari poteva evitare la chiamata alle armi. Questo, di fatto, salvava i ricchi e condannava i poveri ad andare a farsi massacrare dai Sudisti.
La rivolta scoppiò il 13 luglio 1863 contro la leva, ma ben presto esondò dagli obiettivi iniziali andando a colpire sia i ricchi che i poveri più poveri. Ci furono infatti una serie di linciaggi tanto contro i neri, considerati sia un pericoloso concorrente a basso costo sul mercato del lavoro, che contro i responsabili diretti della sanguinosa guerra civile in corso. L’insurrezione ebbe fine il 16 luglio e non si hanno dati certi sul numero delle vittime. La cosa certa è che l’autore, in questo caso, parteggia apertamente. I rivoltosi vengono definiti “plebaglia” e non viene citato un singolo nome dei loro leader così da renderli massa informe e odiosa. I difensori dell’autorità vengono citati uno a uno riportando dettagli anche insignificanti. Nel racconto della rivolta, emerge veramente cosa stia a cuore ad Asbury: la salvaguardia di commerci e proprietà privata.
Il libro poi prosegue raccontandoci il vero e proprio boom di criminalità, corruzione e depravazione seguito alla fine vittoriosa della Guerra di Secessione, quando New York diventa, a detta dell’autore, una nuova Gomorra sede di ogni tipo di traffico illecito.
Si arriva poi lentamente agli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, i cosiddetti Golden Twenties.
Quello che emerge dall’opera di Asbury è un America feroce e febbrile, alla costante ricerca dell’affermazione.
Il libro chiude le vicende narrate nel 1927 e sembra di sentire la voce dell’autore che, sospirando, dice: “Non ci sono più i gangster di una volta!”.
Peccato che, proprio in quegli anni, il Proibizionismo porrà le basi di una nuova generazione di criminali, italiani ma non solo, capaci di surclassare per imprese e ferocia quelli raccontati da Asbury.
Ma questa è un’altra storia…
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