Hollywood, quello che poteva essere. E non è stato
Hollywood, California, 1947.
Un gruppo eterogeneo di giovani e meno giovani lotta per imporsi nella “terra dei sogni”, quella Hollywood che anche gli europei usciti dalle distruzioni e dai lutti della Seconda Guerra Mondiale impareranno ad amare.
Dopo “The Politician” eccoci a commentare un’altra creazione del duo Ryan Murphy e Ian Brennan, già creatori di “Glee”.
La nuova serie è ambientata in un’America uscita vincitrice dalla guerra e pronta a imporsi come grande potenza mondiale, anche grazie all’immaginario da sogno creato proprio dagli studios. Un soft power molto più intrigante e coinvolgente rispetto alle migliaia di T-34 di Stalin.
Sul palcoscenico californiano si muovono e interagiscono due gruppi. Uno di giovani di belle speranze e uno di persone mature già in qualche modo “parte” della scena hollywoodiana.
Il gruppo dei e delle giovani che cercano la scalata al successo è costituito da Jack Castello, veterano della campagna d’Italia, che cerca di sfondare come attore; Raymond Ainsley, un aspirante regista di origini per metà filippine; Camille Washington, una giovane attrice di colore stanca dei ruoli secondari tipicamente stereotipati affidati agli attori afroamericani; Archie Coleman, uno sceneggiatore omosessuale di colore che cerca di fare strada con una sceneggiatura sulla vicenda di Peg Entwistle 8una giovane attrice suicidatasi lanciandosi, nel 1932, dalla gigantesca scritta Hollywoodland9; Roy Fitzgerald che diventerà Rock Hudson (una delle poche figure storiche reali che compare nella serie), celebre star hollywodiana che ha interpretato per decenni ruoli di macho per poi morire di AIDS a metà anni Ottanta quando venne a galla la sua omosessualità; Claire Wood, figlia di un grande produttore degli studios, tipica bellezza wasp che cerca il successo come attrice a prescindere dalla scarsa considerazione che i suoi potenti genitori hanno di lei.
C’è poi il secondo gruppo cui accennavamo. Personaggi altrettanto interessanti che non andiamo a svelare per non eccedere negli spoiler e che hanno dovuto sacrificare i propri sogni, ambizioni e addirittura il proprio “essere” pur di venire a patti e sopravvivere nella spietata e tutt’altro che favolosa Hollywood degli anni Venti e Trenta.
La serie può essere interpretata con diverse chiavi di lettura. La prima e più superficiale è quella della fiaba. Una narrazione volutamente mielosa, sopra le righe e piena di buoni sentimenti (proprio per fare il verso all’ideale promosso da Hollywood in quegli anni) dove alla fine il bene trionfa sempre. E anche solo rimanendo in superficie con questa interpretazione, in un mondo, quello delle serie, dove il bene non vince quasi più ed è anzi diventato estremamente noioso, dove non ci si aspetta più il lieto fine, la serie del duo Murphy-Brennan è assolutamente controcorrente. Nella sua narrazione ti prepara sempre al peggio e poi, improvvisamente, arriva il meglio.
Andando un po’ più in profondità, però, Hollywood appare come un’opera estremamente politica chedice molto degli Stati Uniti del giorno d’oggi, soprattutto in questi giorni di rivolta dopo l’omicidio di George Floyd.
Siamo nell’America democratica di metà anni Quaranta. Roosevelt è appena morto, ma il sogno di un futuro migliore è ancora forte. Siamo negli Stati Uniti del New Deal e di un potente welfare statale per i più poveri.
Un’intera generazione di giovani americani ha combattuto in Europa e nel Pacifico insieme agli inglesi e all’Armata Rossa sconfiggendo la tirannide e liberando i campi di sterminio. Peccato che molti di questi “liberatori”, magari provenienti dal Texas, una volta tornati a casa non notassero nessuna contraddizione tra l’aver liberato gli ebrei dal nazismo e il trattare i neri come servi a casa propria.
Sul palcoscenico della Hollywood progressista e democratica combattono i nostri giovani protagonisti. Una Hollywood all’apparenza glamour e aperta, ma in realtà spietata e piena di pregiudizi. Un’attrice di colore non può infatti recitare come protagonista. Uno sceneggiatore di colore e omosessuale non può vedere il suo nome comparire nei titoli di coda. Un’attore omosessuale non può dichiarare apertamente le sue preferenze sessuali senza temere di essere distrutto (anche se poi, in base alla teoria dei “vizi privati e delle pubbliche virtù” tanto cara alla società puritana americana, tutti sanno e fanno finta di non sapere). Una donna ebrea non può essere l’amministratrice delegata di una grande casa di produzione. Una bravissima attrice di origine orientale non può vincere l’Oscar. Può bastare a descrivere la situazione?
Ebbene, gli autori ribaltano la storia ufficiale creando una nuova storia. Come sarebbe andato il mondo se…
Un’operazione già tentata da Tarantino nel suo “C’era una volta…a Hollywood” ma qui forse ancora più profonda e politica.
Cosa sarebbe successo se negli Stati Uniti del 1947 un ruolo di protagonista femminile fosse stato assegnato a un’attrice di colore? E se due gay avessero dichiarato pubblicamente il loro amore la notte degli Oscar? E via con altri “cosa sarebbe successo se”.
Probabilmente gli Stati Uniti non avrebbero dovuto aspettare altri 15 anni per iniziare a compiere quei passi che sono tuttora faticosamente in corso. Mancarono il coraggio e la forza probabilmente. Lo spettro della Guerra Fredda già aleggiava e, di lì a poco, ci avrebbe pensato il maccartismo a fare piazza pulita delle voci dissonanti, in particolar modo nel mondo del cinema.
Come già detto, nella loro opera, Ryan Murphy e Ian Brennan raccontano molto dell’America di oggi. Un paese dove una “coalizione di minoranze” sta finalmente prendendo a spallate la “vecchia società” diventando protagonista della Storia.
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