“Il vento della rivoluzione” – Uno sguardo libertario sulla nascita del Partito Comunista?

Diversi sono i libri pubblicati in occasione del centenario del Congresso di Livorno del 1921 che portò alla scissione del Partito Socialista Italiano e alla nascita del Partito Comunista.

Uno dei più interessanti è probabilmente Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito Comunista italiano di Giovanni Gozzini e Marcello Flores edito da Laterza.

Il ruolo della guerra

La guerra è vista come elemento fondamentale che offre la finestra d’occasione non solo all’ottobre bolscevico e alla nascita del PCd’I, ma anche ai loro acerrimi nemici Mussolini e Hitler.

Mentre Lenin passa alle estreme conseguenze con lo slogan “Trasformare la guerra imperialista in guerra civile” i socialisti italiani, con il nobile e coraggioso “Né aderire né sabotare”, si condannano all’inazione.

Nel libro si legge un brillante sillogismo, in parte esplicito –”Se non si vuole continuare la guerra bisogna fare come in Russia” – e in parte implicito – “Se non si vuole finire come la Russia bisogna far continuare la guerra in altri modi” (che è poi la base di fascismo e nazismo).

Chi non affronta il tema della guerra in modo radicale, o totalmente contro come Lenin, o completamente a favore come Mussolini e Hitler, è destinato alla sconfitta. Non esistono mezze misure.

Celebre foto del comizio di Lenin di fronte ai soldati dell’Armata Rossa in partenza verso il fronte polacco in piazza Sverdlov, il 5 maggio 1920.

Russia ed Europa, più differenze che analogie

Il successo della rivoluzione nell’Impero zarista è determinato da quattro elementi fondamentali: la guerra di cui abbiamo già detto, il proliferare dei soviet (nati già con la rivoluzione del 1905), l’esistenza di un dualismo reale tra i soviet e la Duma e l’esistenza di un partito rivoluzionario, quello bolscevico. Tutti questi elementi, nel resto d’Europa, non si trovano. In due imperi come quello tedesco e quello austro-ungarico, travolti politicamente dalla sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, gli eserciti mantengono saldamente il controllo e diventano strumento di repressione dei moti rivoluzionari proteggendo la struttura economica capitalista. Al contrario, in Russia, grazie ai soviet, i bolscevichi controllano una buona parte dell’esercito. È vero che in tutta Europa ci sono agitazioni sociali, ma neanche minimamente paragonabili a quelle russe.

In Occidente, inoltre, si assiste alla sciagurata sottovalutazione della forza del nazionalismo, che del resto già nel 1914 aveva portato alla sconfitta delle socialdemocrazie. La storia, insomma, si ripete.

Nel paese dei soviet c’è Lenin, che con duttilità, versatilità e spericolatezza tattica riesce a passare da una posizione all’altra con rapidità pur di salvaguardare la rivoluzione. Si passa quindi dall’autodeterminazione dei popoli all’esportazione della rivoluzione in Occidente coi fucili dell’Armata Rossa (fermata alle porte di Varsavia a metà del 1920), alla svolta a destra della NEP e quindi a una nuova alleanza con i socialisti rinnegati come traditori fino a qualche mese prima.

Ma i partiti comunisti occidentali, che non hanno Lenin come leader e sono impantanati nelle sabbie mobili della fedeltà alla Russia bolscevica, sbagliano e tanto.

Operai armati durante l’occupazione delle fabbriche nell’autunno 1920

“Affinità e divergenze tra il compagno Lenin e noi”. La situazione italiana

Ma torniamo all’Italia.

Le elezioni del 1919 sono in qualche modo uno spartiacque. I socialisti prendono il 32% dei voti mentre i popolari il 20%. Ma le due forze maggioritarie non ci pensano neppure lontanamente a collaborare.

Tra il 1919 e il 1920, in quest’Italia uscita dalla guerra, gli autori descrivono le campagne come luogo di scontro sociale (anche più delle fabbriche occupate). Dopo tante promesse, i contadini-soldati, tornati a casa, ritrovano i padroni reazionari allo stesso posto in cui li avevano lasciati. È nelle campagne, dunque, che il fascismo trova quadri e manovalanze, mentre i comunisti si dimostrano tragicamente assenti.

Nell’opera di Flores e Gozzini è in qualche modo ridimensionato il mito dell’occupazione delle fabbriche nell’autunno del ’20 e sono elencati quattro punti focali di debolezza e sconfitta: i consigli di fabbrica italiani non sono così forti da scalzare la potenza del sindacato (a differenza dei soviet russi); il Partito Socialista non si muove; Giolitti non reprime la protesta ma la lascia esaurirsi; non ultimo, ma anzi elemento determinante anche per la scarsa resistenza di fronte al fascismo dilagante, nei mesi successivi agli scioperi si assiste a licenziamenti di massa.

Si ripropone il tema annoso sull’assurdità di una sinistra italiana che, con il fascismo alle porte, perde tempo a scindersi piuttosto che a combattere contro il nemico comune. Il quale invece, con lungimiranza, attacca tutte le strutture organizzate della sinistra sui vari territori. Qualcuno potrebbe obiettare che nel gennaio del ’21 il trionfo fascista non era assolutamente scontato e che c’era ancora la certezza che la rivoluzione sarebbe stata imminente.

E qui arriva l’autocritica di Gramsci del marzo del 1924 che, con Mussolini già al potere e con Matteotti ancora vivo, ammette come la scissione di Livorno, in quanto scissione minoritaria, sia stata una sconfitta. Una scissione di minoranza che sarebbe stata ancora più piccola se Bordiga, Gramsci e Terracini non avessero avuto dalla loro il mito dell’Ottobre rosso e il sostegno dell’Internazionale, le cui parole d’ordine erano: l’adesione ai 21 punti del Comintern; il cambio di nome da socialisti a comunisti; l’espulsione dei riformisti.

Se, da un lato, il libro condanna senza possibilità d’appello ciò che in successione è definito il settarismo, manicheismo e dogmatismo di Bordiga, propone invece un elogio della vista lunga, della coerenza e della capacità d’analisi di Turati, il vecchio capo del socialismo riformista, uno dei pochi capace di vedere l’approssimarsi di una potentissima reazione al “Biennio rosso”. Ma, se dobbiamo essere sinceri, la stessa acutezza utilizzata per analizzare i fallimenti di tutti gli altri a sinistra si ferma al cospetto del vecchio leader socialista che, come tutti gli altri, sarà incapace di contrastare la marcia trionfante di Mussolini e dei suoi.

Del resto, se l’iniziale settarismo dei comunisti fa compiere il drammatico errore  di mettere sullo stesso piano democrazia e fascismo e di non investire come si sarebbe dovuto sugli Arditi del Popolo che, spesso e volentieri, quando si muovono sconfiggono i fascisti sul terreno della violenza. i socialisti riformisti non brillano certo per capacità di risposta. Sarà proprio il municipalismo socialista tanto caro a Turati e ai suoi a mostrare tutta la sua debolezza di fronte alle camice nere. Qui vi sarà l’incapacità di rispondere al dinamismo della violenza fascista (quello che il libro descrive con l’immagine del camion pieno di squadristi). Le strutture territoriali della sinistra, ben lungi dal mettersi in rete, sono affrontate una a una dai fascisti e battute e disperse una dopo l’altra.

Di fallimento in fallimento, si arriva allo sciopero legalitario dell’agosto ’22 (64 morti tra gli antifascisti e 27 tra i fascisti di cui la metà a Parma, dove subiranno una cocente sconfitta a opera degli Arditi), che sarà l’antipasto della Marcia su Roma di ottobre.

Pe il libro il vero punto di svolta per i comunisti italiani è il Congresso di Lione del 1926, dove, pur con le mille difficoltà di un partito ormai obbligato alla clandestinità dalla repressione fascista (i comunisti saranno gli unici a conservare una rete militante in Italia per tutto il Ventennio) e con un difficile rapporto con Mosca (morto Lenin scompare l’unica persona che con carisma e intelligenza teneva insieme e sintetizzava le tensioni opposte presenti tra i bolscevichi), Gramsci si scosta dal “Moscacentrismo” e inizia a studiare con più attenzione le peculiarità della realtà italiana. Ne consegue con evidenza che Mosca non può dare le stesse identiche direttive a partiti di paesi diversissimi tra loro. Da lì al “partito nuovo” di Togliatti la strada sarà lunga, ma il solco è ormai tracciato.

I titoli dell’Ordine Nuovo di Torino (fondato da Gramsci) durante il Congresso di Livorno del gennaio 1921

 

La mutazione sovietica e i partiti nati da una sconfitta

Gli autori descrivono come, già dopo la pace di Brest-Litovsk (marzo 1918) che porterà la Russia rivoluzionaria fuori dalla guerra, si passa da quello che è definito il “modello dell’ottobre” basato sul binomio soviet-partito a quello della guerra civile retto dal trittico partito-Ceka-Armata Rossa.

L’altro mutamento decisivo che Flores e Gozzini notano e in qualche modo imputano a Lenin e ai suoi è il passaggio del focus, da parte della rivoluzione bolscevica, dalla società sempre viva e dinamica come un’eruzione vulcanica al ruolo dello Stato come ancora di salvezza e potenza capace di risolvere ogni problema.

I capisaldi leninisti, per coloro che si ispirano al modello russo, sono quindi due: la rottura con i riformisti e la fedeltà a Mosca. In definitiva, i partiti comunisti europei nascono non sull’onda di una rivoluzione continentale vincente, ma di un ripiegamento e di una serie di sconfitte.

Il settarismo dei comunisti negli anni Venti nei confronti della socialdemocrazia è anche spiegato dal gigantesco tradimento del 1914, con il voto dei crediti di guerra da parte di tutte le sinistra riformiste (tranne quella italiana) che ha portato l’umanità in una delle più gravi catastrofi della sua storia. Insomma, dei socialdemocratici non ci si può fidare, visto quello che hanno combinato pochi anni prima.

L’Antologia di Spoon River dei padri fondatori

Prima del finale troviamo un bel capitolo dedicato alle vicende biografiche degli attori protagonisti della svolta del gennaio ’21 a Livorno. Come nei titoli finali di un film, assistiamo alle travagliate vicende di Bordiga, Gramsci, Togliatti, Misiano, Tasca e Bombacci.

Destini molto diversi l’uno dall’altro che, in fondo, testimoniano però tutti la tendenza a prendere strade diverse da quelle previste della narrazione ideologica.

Un finale libertario?

Il finale del libro è, in qualche modo, un finale più libertario che riformista, a differenza di quanto ci si sarebbe potuti aspettare dopo aver letto le 203 pagine precedenti, dove si segue un fil rouge neppure troppo nascosto tra alcune figure “di destra” come Turati e Amendola.

Gli autori, dopo averci riportati al nucleo positivo del comunismo, che a differenza del nazifascismo si basa su sentimenti nobili come solidarietà umana e volontà di miglioramento non solo per pochi fortunati, ritornano a quello che può essere definito il messaggio fondamentale del libro.

La colpa più grave imputata al comunismo non sono i morti e gli orrori che, del resto, caratterizzano ogni modello di società umana, ma l’essersi affidati allo Stato. Averlo eretto a religione e aver messo le vite degli esseri umani nelle mani di un sorta di statolatria. Questo il messaggio più forte che emerge nelle ultime pagine dell’opera.

Un finale che sembra andare controcorrente in uno mondo che, travolto dalla pandemia, sembra chiedere sempre più protezione e dove lo Stato sembra essere tornato in campi come attore principale.

In fondo, il senso dell’opera può essere riassunto in questa frase: “[…] non si può pensare allo stato come soluzione a ogni cosa. Lo può e lo deve essere in alcuni campi fondamentali (scuola, sanità). Ma non può sostituirsi alla libera capacità creativa degli uomini e delle donne in carne e ossa”.

In linea teorica si può essere d’accordo, ma nel pratico di tutti i giorni, di fronte allo sfacelo del Covid-19 e di quarant’anni di religione neoliberista, la fiducia nell’individuo può bastare come soluzione unica?

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