Limonov, storia di un avventuriero

Sapevamo che sarebbe stato molto difficile eguagliare il romanzo del 2011 di Emmanuel Carrère dedicato alla figura poliedrica, indefinibile ed enigmatica dell’artista (ma lui avrebbe sputato su questa definizione) russo Ėduard Limonov. Scomparso nel 2020 dopo una vita che definire complicata pare un eufemismo, Limonov si è ritrovato, di volta in volta, poeta, scrittore, senzatetto, maggiordomo, guerrigliero, leader di partito, oppositore politico, carcerato e tanto altro. E, effettivamente, l’impresa si è dimostrata troppo ardua per il regista russo Kirill Serebrennikov e per la sua pellicola, il cui titolo originale è Limonov, la ballata che, nonostante molti elementi apprezzabili, non riesce a restituire tutte le sfaccettature dell’opera letteraria dello scrittore francese.

Nato in Unione Sovietica, a Dzeržinsk (un nome che è già di per se tutto un programma, essendo un omaggio al rivoluzionario bolscevico e fondatore della Čeka Feliks Dzeržinskij), e figlio di un ufficiale dell’NKVD (il Commissariato del popolo per gli affari interni), Limonov si trasferisce presto a Charkiv, la seconda città dell’Ucraina sovietica, dove negli anni Sessanta, dopo un’infanzia turbolenta, inizia a frequentare gli ambienti intellettuali semi-clandestini in qualità di aspirante poeta. Sentendosi incompreso e asfissiato da un’intellighenzia che lui ritiene provinciale e alla quale si ritiene nettamente superiore (dando già dimostrazione di un ego ipertrofico e smisurato che genera in lui la necessità di stare sempre sotto la luce dei riflettori), si trasferisce nella Mosca brezhneviana e qui entra in contatto con il milieu intellettuale locale, sempre in equilibrio tra dissenso e accondiscendenza col regime. Già a questo punto Serebrennikov fallisce nel far emergere un aspetto molto importate della società sovietica: il ruolo particolare occupato dagli artisti nel Paese, da sempre inevitabilmente avversati dal potere, ma in qualche modo anche blanditi e rispettati. Come se l’autocrate di turno avesse bisogno dell’amore incondizionato da parte di quelli che Stalin definiva “gli ingegneri delle anime” e rimanesse ferito non ricevendolo. Secondo la tradizione russa sono proprio gli artisti, spesso marginali, a raccontare la verità al popolo; il quale, d’altra parte, non è detto che, dopo averla ascoltata, si comporti di conseguenza.

Dopo aver conosciuto la bella ed energica Tanja e dopo essere stato travolto da un amore fulminante, Limonov riesce a ottenere il visto per gli Stati Uniti (con l’intercessione del KGB, secondo il regista) per se stesso e per la sua compagna. Giunti a New York, i due si rendono ben presto conto che la vita nel regno del capitalismo e del consumismo non è facile come sembra. Indicativa è la scena che vede Limonov partecipare a un corso comunale di inglese: interrogato dall’insegnante sul suo Paese di provenienza, tra lo stupore e l’ammirazione della platea di migranti spiega che, da dove viene lui, i servizi sono tutti gratuiti. “E allora cosa ci fai qui?”, gli domanda sfrontatamente una giovane donna afrodiscendente. Pur frequentando il milieu degli esuli russi, anche nella Grande Mela Limonov non riesce a farsi un nome come scrittore e, anzi, inizia a disprezzare sempre di più i vari autori dissidenti come Brodskij, Solženicyn e Evtušenko, che considera degli opportunisti sempre pronti ad autopromuoversi. Va detto che dalla narrazione non emerge quanto il superbo disprezzo mostrato verso costoro derivi da vere considerazioni culturali e politiche o dall’ego gigantesco e frustrato del protagonista di fronte ai propri fallimenti. La vita newyorkese finisce per distruggere la coppia Ėduard-Tanja, e Limonov precipita nella vita randagia della metropoli decadente di metà anni Settanta. Qui la pellicola fa sfoggio di diverse scene indubbiamente ben girate, ma forse eccessivamente oniriche e lisergiche. Uscito dalla spirale di degrado e dopo essere divenuto il maggiordomo di un ricco miliardario, il nostro protagonista decide di trasferirsi in Francia. Una fase della sua vita che non ci viene mostrata, se non con qualche scena in cui scopriamo che ha finalmente ottenuto il successo che voleva (del resto, la Francia ama tutto ciò che odora, anche solo da lontano, di intellettuale e dissidente).

Ed ecco dunque che Limonov fa ritorno in patria nel fatidico 1989. Il crollo è ormai imminente. Tanto per cambiare, Limonov assume posizioni controcorrente e diventa quasi sostenitore del regime morente. Bella la scena dell’incontro del protagonista con i genitori che non vedeva da decenni, con la televisione accesa che mostra Gorbačëv e il padre che inveisce contro il leader del Paese e del partito che, secondo lui, porterà tutti e tutto allo sfacelo. Da lì si passa velocemente, ma perdendo un po’ il filo, alla rivolta dell’ottobre 1993 (chi si ricorda Mosca 993 della Banda Bassotti?) contro Elstin e le sue riforme liberiste, alla quale Limonov partecipa da protagonista, e all’esperienza del Partito Nazional-Bolscevico che il nostro fonda con un personaggio che, negli ultimi anni, è diventato noto anche qui in Occidente: Aleksandr Dugin. Infine, la prigione in una delle tante colonie penali dell’estrema provincia russa e un finale forse un po’ affrettato.

L’attore protagonista, il bravissimo Ben Whishaw di This Is Going to Hurt, era di fronte a un compito estremamente arduo e, nonostante ce la metta tutta, non riesce a far emergere l’anima profondamente russa del protagonista della storia. Il Limonov del film emerge come una rockstar profondamente punk, quando la sua è stata, in realtà, una vita più simile a quella di un avventuriero ottocentesco, di una figura dannunziana che ha fatto e provato tutto, caratterizzata da un’insaziabile voglia di vita e sempre pronta a schierarsi contro la moda vincente del momento, più a livello esistenziale che politico.

La grande assente nel film di Serebrennikov, il quale ha definito il suo Limonov un Joker russo, è la Russia stessa, che nel libro capolavoro di Carrere è ben presente come protagonista (a volte pare quasi che la vicenda di Limonov sia solo un espediente narrativo). Un osservatore attento potrebbe notare che in alcune scene sono state inserite alcune frasi che cercano di indirizzarci nella comprensione del popolo russo, in questo momento così distante da noi occidentali. Ma è decisamente troppo poco. Altro grande assente e vero convitato di pietra del film è Vladimir Putin, che nel romanzo è invece addirittura colui che apre la narrazione con una citazione divenuta ormai famosa: “Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange senza cuore”.

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