Montanelli a Norimberga: anatomia di una statua
Entrando da Piazza Cavour ai Giardini Pubblici Indro Montanelli, troviamo la statua celebrativa dello stesso giornalista che dal 2002 dà il nome al parco – originariamente Giardini Pubblici di Porta Venezia. I Giardini però non cambiano nome a causa della celebre statua; questa infatti viene eretta nel 2006. Sia la dedica del parco sia la commissione della statua avvengono sotto l’amministrazione Albertini (sindaco di Milano dal 1997 al 2006). La decisione viene discussa da una commissione che si occupava di costruire nuovi monumenti in varie zone della città. Interessante è inserire questi due eventi all’interno di un contesto più ampio di monumenti celebrativi inaugurati a Milano proprio in quel periodo.
Nel 2003 viene inaugurata, a pochi passi dalla Basilica di Sant’Ambrogio, la Piazzetta S. Josemaria Escrivá – in omaggio al sacerdote che nel 1928 fondò in Spagna la congregazione cattolica Opus Dei. Nel 2006 il Parco di Via Solari viene dedicato al fondatore di Comunione e Liberazione, Don Luigi Giussani (a un anno dalla sua morte). Lo stesso anno viene intitolata una strada a Fabrizio Quattrocchi, guardia di sicurezza rapita e uccisa in Iraq nel 2004. La via si trova di fianco ai Giardini in memoria dei Caduti di Nassiriya – quest’ultima inaugurata due mesi dopo.
Inizialmente le critiche mosse alla statua sono di natura estetica. Sottolineano soprattutto la contraddizione insita nell’erigere un monumento celebrativo ad un intellettuale che in vita si era sempre mostrato avverso a questo tipo di celebrazione. Albertini in persona spinge per la costruzione del monumento, sottolineando il rapporto tra Montanelli e Milano e quello personale che lo lega al giornalista, che definisce come un ‘secondo padre’ e che fu il primo nel 1997 a intervistarlo durante la campagna per l’elezione a sindaco.
Secondo una fonte diretta di Repubblica la statua era stata originariamente commissionata ad uno scultore serbo, che in un secondo tempo rifiutò il lavoro. La committenza passa allo scultore Vito Tongiani – meglio conosciuto per la sua scultura in bronzo di Giacomo Puccini a Lucca; eretta nel 1994 grazie ai finanziamenti del Rotary Club e dell’Associazione degli Industriali. Lo scultore di Matteria, non avendo conosciuto Montanelli in vita, utilizza fotografie e abiti d’epoca a lui forniti dalla famiglia Montanelli. Albertini e i Montanelli chiedono di utilizzare una specifica foto – scattata dal fotografo Fedele Toscani nel 1940. Nella fotografia Montanelli, con cappello, è intento a battere sulla sua macchina da scrivere nella sede del Corriere della Sera.
La scultura si distacca dalla fotografia dietro la manomissione di un dettaglio. Togliere il cappello dalla testa di Montanelli e posarlo di fianco. Scelta fatta da Albertini con l’assessore Zecchi e il vicesindaco De Corato: l’intenzione è di mostrare la testa del giornalista, intenzione accolta dallo scultore a cui quella testa “faceva pensare a Ramsete II e a certe sculture egizie”. La seconda licenza poetica è quella di marchiare la macchina da scrivere come una Lettera 22, famoso modello Olivetti che nel 1940 non esisteva ancora. Se quest’ultima scelta fosse intenzionale o una svista storica non è chiaro.
L’aspetto simbolico della statua non riguarda tuttavia la scultura di per sé.
Il monumento si trova all’entrata dei giardini di fronte al Palazzo dell’Informazione – realizzato a sua volta tra il 1938 e 1942 dall’architetto Giovanni Muzio su commissione di Mussolini e sede storica de Il Popolo d’Italia. Come ripete Albertini alla cerimonia d’inaugurazione alla statua, in quell’area del parco Montanelli fu gambizzato dalle Br nel 1977:
In quegli attimi ricordo la promessa che avevo fatto a Mussolini, e a me stesso, quando, bambino, mi ritrovai intruppato nei balilla: “Se devi morire, muori in piedi!”
(I. Montanelli, Corriere della Sera,1977)
La statua è a sua volta recintata da una struttura che vorrebbe ricordare la Stanza, la rubrica che Montanelli tenne per il Corriere della Sera dal 1994 al 2000 in cui rispondeva alle domande dei lettori – oggi famosa per la lettera Quando andai a nozze con Destà, in cui descrive nel dettaglio il contratto a termine con cui egli stesso acquistò una giovanissima eritrea di nome Fatima e una capanna a poche lire, durante il suo arruolamento volontario nella campagna d’Africa.
Arte pubblica, commissioni, simboli e identità sono dimensioni che si intrecciano continuamente. Determinano la coscienza e la memoria collettiva di un luogo.
Le domande che vogliamo porci, in seguito a un rifiuto iconografico tanto netto, riguardano proprio il rapporto tra collettività e spazio urbano (che diventa spazio simbolico), tra percezione del proprio passato (e presente) e manipolazione politicamente determinata delle immagini, dei nomi, dei luoghi.
Ripeschiamo l’opera dell’artista Jason deCaires Taylor intitolata ‘La Zattera di Lampedusa’, una delle sculture del MUSA (Museo d’Arte Subacquatico), complesso di bronzi sedimentati sui fondali di Lanzarote, nelle isole Canarie.
Taylor rielabora e glorifica nel bronzo l’immagine della morte di migliaia di corpi partiti dall’Africa e decaduti cadaveri nelle profondità del Mediterraneo. Non rimane solo un’opera celebrativa: la forte polemica sull’atteggiamento di cecità di fronte a tali drammi è rappresentata da una coppia – un uomo e una donna in procinto di scattarsi un selfie e incuranti di ciò che succede alle loro spalle. L’opera di Taylor è provocatoria, ma accettata perché custodita in un ambiente protetto.
Se per ipotesi posizionassimo lo stesso concetto artistico nello spazio politico e storico in cui sono avvenuti i fatti, cosa succederebbe? Roghi di minacce e censure di plastica: questa è stata la fattuale reazione e la violenza scattata a giugno di quest’anno sull’isola di Lampedusa. Il 6 giugno 2020 in due punti diversi le vecchie barche usate dai migranti sono state messe alle fiamme da mani sconosciute; pochi giorni prima il monumento eretto da Mimmo Paladino nel 2008 in celebrazione allo spirito d’accoglienza di Lampedusa, la cosiddetta ‘Porta d’Europa’, viene trovato imballato da nastro e plastica nera.
C’è qualcosa di dolorosamente poetico in queste ossimoriche facce della questione: da un lato il frame del dolore congelato nel bronzo, esposto in un acquario senza bordi nella pacifiche profondità marine delle Canarie; dall’altro gli scheletri lignei di quel dolore, inceneriti in spazi urbani delimitati e puntuali, nel rituale di una feroce caccia alle streghe. In questi fatti si tematizza lo statuto della vittima che può esistere solo nello spazio del silenzio; appena ne esce, eccone la distruzione.
Nella grande narrazione l’arte viene vissuta come sacro e intoccabile patrimonio culturale, ma quel che è veramente potente è la sua natura viva di attore loquace e interlocutore scomodo. Diventa strumento critico per problematizzare e tentare di comprendere gli avvenimenti presenti in un continuo dialogo con il passato e con le sue sopravvivenze.
Di pari passo, attraverso un processo di assimilazione e di svuotamento delle significanze, anche il mecenatismo bancario nasconde. Privatizza con lo spazio espressivo l’apparato simbolico della società, aziendalizza l’identità storica e politica e produce (letteralmente) parvenze di progresso che consentano di mantenere inalterato lo status quo.
Torniamo indietro.
Gli anni ’70 avevano visto un mercato dell’arte popolato da collezionisti, privati più o meno ricchi che, sostenendo un certo tipo di artisti, spesso davano vita a opere di pubblica musealizzazione – avviene ad esempio con la fondazione dei Boschi Di Stefano, grandi amici di Lucio Fontana; da galleristi, i cui spazi diventavano veri e propri teatri di avanguardia artistica – caso della Galleria di Cardazzo a Venezia; e da mercanti, coloro che si occupavano dello scambio materiale dei quadri e tessevano reti di relazioni tra artisti, collezionisti e galleristi. Corona di questo sistema erano i critici d’arte e gli stessi artisti, che attraverso collaborazioni editoriali più o meno sperimentali si occupavano di divulgazione e di dare continuità ad una certa particolare direzione (IL GESTO, rassegna internazionale delle forme libere di Fontana et alia).
Ebbene, con la restaurazione economica e la forte programmaticità repressiva degli anni di piombo e in generale con una trasformazione in senso verticale degli attori nel mercato dell’arte, i costi espositivi aumentano, dovendo comprendere spese di trasporto, spese editoriali (cataloghi, pubblicità), spese assicurative e grandi spazi che possano competere con il mercato internazionale. L’onere economico non è più sostenibile per l’imprenditorialità creativa post bellica e l’esito è una gestione dei finanziamenti e della promozione degli artisti in mano a grandi fondazioni private, in costante dialogo con la politica locale e internazionale (SKIRA o Fondazione Prada), oppure in mano a grandi brand e banche.
Ad esempio?
Il 2018 è stato il giubileo dei 50 anni dai moti rivoluzionari del 1968 e ne è nata una mostra itinerante chiamata ‘L‘Urlo del ’68’ organizzata e sponsorizzata dal Credito Bergamasco e dalla Banca Popolare di Lodi. Le sue lussuose sedi erano Palazzo Creberg, sede del Credito Bergamasco e Bipielle Arte, fondazione della Banca Popolare di Lodi.
Esistono in questo delle implicazioni. Con il presupposto che l’ente sponsorizzante non è neutrale dispensatore di soldi ma attore della e nella esposizione, le sue scelte (pittori da finanziare, quadri da esporre) ricadono sulla narrazione dei contenuti, sulla memoria storica e politica che se ne vuole offrire e naturalmente sull’immagine del dispensatore stesso.
In altre parole i fatti narrati – in questo caso i moti anti istituzionali del 1968 – e la retorica formale della BPM si fondono in un solo amalgama a creare esaltazione di consenso e ad avvicinare un nuovo pubblico pagante.
Come ammorbidire gli ossimori tra arte politica, scomoda e anti istituzionale e di contro immagine del capitalismo arricchito, delle oligarchie bancarie? Attraverso un processo di moderazione delle parti. La banca si pone come soggetto non solo speculativo ma anche artistico, dietro il mito della Banca Buona e anche un po’ Anticonvenzionale e davanti ai pittori, i pittori violenti e minacciosi, che sono esposti con le loro sole tele accettabili (fig.I) e con le loro sole interviste moderate, senza mancare di ricordare che “tirare i sanpietrini alla polizia è sbagliato”.
L’esito è una censura che proietta l’esistenza dell’artista in una dimensione storica ma evita accuratamente di farlo in una dimensione consapevole, politica e operativa.
Le opere più problematiche (fig. II) sono inserite nel catalogo ma non sono esposte, sono riprodotte ma svuotate del loro significato, rese mute, accantonate fra le mute vittime.
Paolo Baratella è uno di questi invisibili. È uno di quelli che chiama ‘porco’ Indro Montanelli, che ad 86 anni va in crisi perché teme di non aver messo sufficientemente in discussione la sua identità di genere e il suo privilegio maschile, che fa parte di quella controstoria degli anni ’70 attualmente ridotta a mero formalismo; che fa parte della narrativa di un passato anticapitalista, antiamericanista e antifascista che poco si addice all’Italia equilibrista di oggi.
Al posto di una Norimberga abbiamo avuto la censura, la negazione di un passato colonialista, la sepoltura di una rivoluzione partigiana, il reimpiego di una classe politica anteguerra nel fragile tessuto della neonata Repubblica.
Lo stesso fascismo che non vuole responsabilizzare Montanelli e gli altri agisce affievolendo la narrativa di Baratella.
E allora era cruciale che la vernice sul corpo di Montanelli non scivolasse via. Non lavate questo sangue. Una spessa colata di rosa e di rosso lo rivestiva come un manto. Per poco ne risorgeva un unicum, una commistione di passato e di presente in ascolto (fig.III) dove il contrasto – visivo e simbolico – increspava le linee pure e chiuse di un corpo che non solleva lo sguardo.
Perché adesso?
Gli scorsi mesi hanno dato prova di un sentimento di urgenza che chiede di semantizzare in altri occhi le simbologie del vissuto. Percepiamo oggi un tempo storico che non ha nome, in grado di incrinare il sistema laddove questo è più marcatamente contraddittorio. Crolla l’illusione del racconto dominante. La pandemia ha generato condizioni di esistenza senza precedenti: ci siamo fermati, imprigionati nella società ma esclusi da essa. L’arresto ha consentito l’apertura di uno squarcio nel sistema stesso; forse questa reale percezione e le tensioni scaturite da una crisi a più livelli hanno svelato le pesanti fossilizzazioni. Una forma tragica di uguaglianza generata da un evento troppo vasto per essere imputato a univoci capri espiatori ha prodotto, ovunque, il risveglio di un’insofferenza nei confronti della narrazione ortodossa e dominante. Prova ne sia il riverbero globale seguito agli eventi di piazza degli Stati Uniti.
In questo contesto a Rimake, bene comune aperto e progettuale di Milano, sono nati diversi sportelli che, attraverso la rete di Non Sei Sol@, si sono occupati di diritti sindacali, supporto psicologico, babysitting volontario, casa e affitti, distribuzione di generi alimentari e di beni di primo uso. Le Brigate Volontarie di Milano hanno raccolto più di 600 volontari e portato pacchi alimentari ad oltre 10mila famiglie. Ebbene, Rimake, Torchiera, il centro sociale Lambretta (uno dei promotori del coordinamento delle Brigate) sono adesso a rischio di sgombero o comunque di alienazione a soggetti privati. Di fronte a una rigenerata consapevolezza politica del e dal basso, la minaccia è precisamente quella della censura. Sulla scia di questa consapevolezza all’interno di Rimake è nato il Covo, esperienza di ricerca artistica che vuole esporre, attraverso le arti, gli invisibili, i censurati e gli sgomberati. Le scorse tre domeniche Rimake ha per la prima volta ospitato uno fra i pezzi di controstoria post fascista più rilevanti e censurati: Paolo Baratella, ‘La Vera Storia di Mr. P.’
A partire da settembre desideriamo portare queste creature, voci passate e presenti, esattamente laddove ci si rifiuta di guardare: nei centri sociali, nei centri artistici, nei centri di accoglienza e di formazione.
L’invito è dunque a non lasciare che questo tessuto si sfilacci e a continuare a sostenerci vicendevolmente attraverso atti di militanza artistica e di solidarietà politica.
IL COVO
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