Non solo genere
Anni fa, durante una lezione del master che allora frequentavo, avvenne un episodio che, di tanto in tanto, ha continuato a tornarmi in mente.
Si parlava dell’arte dissidente femminista americana degli anni Settanta e una compagna di corso, originaria del Nord Europa, fece un intervento che, apparentemente, scandalizzò l’aula.
Affermò che nella sua esperienza il problema dell’emancipazione femminile smetteva di esistere nel momento in cui la donna si poneva alla pari con il genere maschile.
Nel suo Paese, sosteneva, le donne sono rispettate, retribuite ed emancipate quanto gli uomini e lei stessa non aveva mai subito forme di discriminazione di genere, né era cresciuta in una famiglia patriarcale, il che le aveva permesso di non dover nemmeno prendere in considerazione i problemi legati all’uguaglianza tra generi.
Ora, al di là del fatto che probabilmente le statistiche sulla violenza di genere nel suo Paese l’avrebbero smentita, il motivo per cui tale osservazione allora mi colpì fu che, in effetti, la mia esperienza personale fino a quel momento non era stata diversa da quella della mia compagna. Infatti, sono cresciuta in una famiglia in cui i genitori, entrambi lavoratori, si sono sempre divisi i compiti di cura dei figli e la gestione della casa.
Addirittura, questi pesavano per varie ragioni maggiormente su mio padre, che si occupava per esempio di cucinare e fare la spesa più spesso di mia madre. Sono stata cresciuta senza sentirmi mai dire come avrei dovuto comportarmi “in quanto donna”, ho frequentato contesti sociali e scuole dove non erano fatte distinzione in termini di sesso (ce n’erano però in termini di razza e, indirettamente, di classe) e certamente questo ha determinato il fatto che non mi sia mai posta il “problema del femminismo” prima di incontrarlo nelle aule universitarie e più tardi nei contesti di movimento.
Da questo episodio emerge a mio avviso con grande chiarezza uno dei concetti cardine del pensiero di bell hooks, pseudonimo di Gloria Watkins, autrice dell’antologia di saggi appena pubblicata dalla neonata Tamu edizioni che raccoglie alcuni scritti della teorica e attivista afroamericana, insieme a un’intervista a cura di Maria Nadotti (anche traduttrice del resto del testo).
bell hooks, nata in una comunità segregata del Kentucky dei primi anni Cinquanta da una famiglia di estrazione sociale bassa, molto religiosa e dominata da un padre-patriarca che ne ha segnato la crescita e determinato il malessere che l’ha accompagnata almeno fino agli anni del college, insiste infatti sulla necessità di considerare la lotta femminista come intrinsecamente legata a quella di classe e di razza. Anche detto: non è possibile affrontare le questioni di genere senza prendere in considerazione anche l’estrazione sociale e la razza di chi agisce la lotta e del pubblico a cui ci si vorrebbe rivolgere. Per dirla con le parole della stessa hooks, che racconta di quanto la sua posizione di teorica femminista nera approdata nella dimensione accademica degli women’s studies a fine anni Sessanta, prima come studentessa e poi come docente, sia sempre stata antitetica a quella di tante colleghe:
“La loro posizione […] era radicalmente diversa dalla mia: per loro il problema centrale era l’esclusione delle donne dalla forza lavoro. Tornavo a casa dicendomi che non riuscivo neppure a capire di cosa stessero parlando: tutte le donne che in vita mia avevo conosciuto avevano sempre lavorato. Fu così che cominciai a pensare che forse, nel fatto di essere una donna nera c’era qualcosa di peculiare, di diverso. […] Quando pensavo alla realtà delle donne , pensavo automaticamente ‘donna nera’, perché era la sola donna che conoscevo. La realtà delle bianche non sapevo neanche cosa fosse”.
Ora, sostituiamo “donna nera” con “donna povera” e vedremo che la sostanza non cambia: anche in questo caso, infatti, l’urgenza della donna di classe bassa non sarà quella di essere legittimata a entrare nel mondo del lavoro, magari occupando un posto di dirigenza normalmente affidato agli uomini, dato che probabilmente quello del lavoro, ovviamente sottopagato e mal riconosciuto, è l’unico mondo che conosce, ma piuttosto rivendicare il diritto a un salario equo e al tempo di non lavoro (magari da dedicare anche alla cura della propria famiglia e dei propri figli).
Per inciso, qui si apre un altro tema interessante trattato all’interno dell’antologia di hooks, quello del concetto di “casa”. Di nuovo: se a partire dagli anni Settanta per le femministe bianche di estrazione sociale alta la casa diventa il luogo da rifiutare perché spazio di perpetuazione del patriarcato, la prigione di cui liberarsi per unirsi alla forza lavoro, per le nere provenienti da una classe bassa e da realtà di segregazione razziale la casa rappresenta invece il primo e fondamentale “luogo della resistenza”.
Questo non vuol affatto dire, ci ammonisce hooks, che nelle case delle famiglie nere non si perpetuasse il patriarcato, anzi, la sua storia personale conferma esattamente il contrario.
Ciò però non nega che “Il compito di costruire un focolare domestico, di fare della casa una comunità di resistenza, è stato condiviso globalmente dalle donne nere, in particolare dalle donne nere delle società suprematiste bianche”, anche come forma di opposizione al fatto che storicamente “le donne nere si dedicavano alla cura e al servizio di una famiglia bianca, mentre il loro solo desiderio era di avere forza ed energia da dedicare alla propria”. Ecco qui, dunque: possiamo valutare se sia giusto o meno intraprendere una crociata globale contro l’idea di “casa-prigione” senza tenere conto delle differenze della percezione stessa di “casa” a seconda della classe e della razza cui si appartiene?
Come quello di casa, anche il concetto di “arte” è problematizzato a partire dalla stessa prospettiva critica: nelle comunità afroamericane, l’arte è sempre stata vissuta come uno “strumento intrinseco della politica” – e per politica intendiamo lotta rivoluzionaria per i diritti dei neri – e questa idea ha trovato il suo compimento nel Black Arts Movement. L’arte, in sostanza, è sempre stata giudicata per il suo valore politico e intesa come “braccio culturale della rivoluzione” con il “solo” scopo di invitare alla resistenza e ispirarla. Per noi occidentali bianchi, questa visione è estremamente poetica, dal momento che la nostra storia dell’arte ci parla invece di uno strumento che è stato spesso un megafono del potere costituito che si rivolgeva e ammoniva le masse analfabete o appannaggio e vezzo delle classi abbienti.
Inoltre, hooks nota come per gli afroamericani vittima della segregazione la produzione artistica rappresentasse “un modo per mantenere i legami con il passato” e per “controbilanciare ciò che sostenevano i suprematisti bianchi o i neri che si erano lasciati colonizzare la mente, cioè che non restava alcun legame vivo e vitale tra la cultura degli afroamericani e le culture d’Africa”.
Tutto questo a scapito di quel “nesso tra atto creativo e piacere”, che ha portato in definitiva alla “subordinazione dell’arte alla politica”, dell’estetica al significato, legandola in maniera troppo stretta al “nazionalismo culturale nero” e facendola cadere in un pericoloso paradosso: “il Black Arts Movement continuava a sostenere di rappresentare una rottura rispetto alle tradizioni bianche occidentali, [ma] rispetto al rapporto tra arte e cultura di massa il grosso della sua impalcatura filosofica ribadiva le categorie correnti”.
Opportunamente, in questa sede hooks cita John Berger, il quale riferendosi alla prospettiva socialista nei confronti della produzione artistica riconosce che “il rapporto tra arte e propaganda politica viene spesso confuso”.
Mentre dunque noi ci affascinavamo nell’osservare dall’esterno quel nodo indissolubile tra arte e politica nere, molti artisti afroamericani si sono allontanati dal nazionalismo culturale nero, raggiungendo posizioni reazionarie che negano in toto qualsiasi legame tra arte e politica, aggrappandosi all’idea di un’arte pura e trascendente.
E in definitiva, sostiene hooks, “l’impatto di questi due movimenti, dell’estetica nera e dei suoi oppositori, ha ridotto a zero quasi in tutti i campi, tranne che nella musica, la produzione artistica degli afroamericani”. Non è infatti un caso che il jazz, proprio per quella sua naturale spinta alla sperimentazione, sia riuscito a sottrarsi a qualsiasi dettame impositivo sia che provenisse “da un pubblico bianco che affermava che la sua non era vera musica”, sia “da un pubblico nero che voleva vedere legami più espliciti tra opera musicale e lotta politica”.
Per chiudere, l’autrice sottolinea come per gli afroamericani il rifiuto del nazionalismo culturale nero significhi anche e soprattutto il rifiuto del “postulato razzista in base al quale le produzioni culturali dei neri possono avere una rilevanza e un significato ‘autentici’ solo per un pubblico di neri”. Allo stesso modo, anche la convinzione che la condizione degli afroamericani debba essere combattuta solo dai neri è messa in discussione: “il razzismo – afferma hooks – è un problema dei bianchi, almeno quanto lo è dei neri”. Per dirla in termini contemporanei, lo slogan Black Lives Matter ha senso solo se a gridarlo è il popolo americano, di qualsiasi colore esso sia.
Torniamo al tema principale della nostra riflessione, l’emancipazione della donna e la lotta femminista. Come corollario a quanto sopra riportato, hooks afferma che a suo avviso “il vero momento di ‘visione’ del femminismo , il punto più alto della sua capacità d’invenzione, sia stato quando questo ha cominciato a prendere le distanze dalla nozione di ‘genere’ come unica e sola esperienza che definisce la vita delle donne”.
Come dicevamo, infatti, hooks ha rilevato una lacuna in quella forma di pensiero femminista che vede nelle donne una “casta sessuale”, mentre “una volta che si tirano in campo le questioni della razza, della classe, della nazionalità, sparisce ogni ipotesi di destino comune delle donne”.
Non basta opporsi a un uomo, o al genere maschile, lottare per i pari diritti sul posto di lavoro, per l’aborto o contro le molestie, perché è proprio qui che si è creata la frattura all’interno del movimento delle donne: quella con “le bianche chiedevano le riforme, che non hanno mai avuto interesse per nessun tipo di trasformazione rivoluzionaria della società, che volevano semplicemente la parità rispetto agli uomini della loro classe”.
Più o meno lo stesso tipo di rottura si è avuta a seguito dell’istituzionalizzazione degli women’s studies e del pensiero femminista all’interno dell’accademia. “Quando si arriva a pensare e a suggerire che la coscienza femminista – opportunamente convertita in ‘sapere’ femminista – si acquisisce per via disciplinare, attraverso un curriculum universitario, il gioco è fatto: il movimento politico si trasforma in élite intellettuale.
E la hooks in tal senso non fa sconti neppure a se stessa, anche in questo caso facendo notare come la classe, in questo caso quella “accademica”, di appartenenza giochi un ruolo fondamentale nel determinare le “forme” del femminismo: “Ci siamo messe a pensare ai dottorati di ricerca, ai posti di associate, a chiederci se pubblicavamo abbastanza. Una volta cadute in questa rete, ci siamo ritrovate a far parte dell’elemento più conservatore dell’accademia”.
Il risultato, è stato lo scarto tra la crescente complessità del “discorso femminista” e la capacità di lettura della donna media. E questo fa ovviamente il gioco del patriarcato, per il quale non può che apparire conveniente “sostenere un pensiero che per sua natura non può circolare se non in ambienti ristretti e molto acculturati”, cioè tra la stragrande minoranza.
Quindi, in sostanza, il nodo da sciogliere per ritrovare un terreno e un linguaggio comune di lotta è quello che si costruisce intorno alla convinzione che il genere sia l’unico elemento determinante per le donne in via di emancipazione.
La realtà, secondo hooks, è che “non esiste una condizione femminile”, perché nel mondo le donne possono avere priorità e problemi molto differenti. Ugualmente, bisogna prestare molta attenzione a che le teorizzazioni femministe non arrivino a slegarsi in maniera definitiva, come sembra stia accadendo in alcuni casi, con la vita della maggioranza delle donne.
Per usare parole ancora più dirette: “Oggi il femminismo non si rivolge con sufficiente forza ai bisogni delle donne delle diverse classi sociali. Il risultato è che le uniche questioni ‘femministe’ che raggiungono un vasto pubblico sono quelle dell’aborto, dell’antipornografia, della violenza domestica […] Ma sono davvero tante le donne per le quali i problemi principali sono questi? […] Se dovessi progettare un pensiero femminista adeguato al presente, credo che al primo posto metterei la questione dell’istruzione di base, del leggere e dello scrivere, dell’avere accesso ai libri”.
Tutto questo, hell brooks lo scriveva e lo affermava alla fine degli anni Novanta. Tornando all’esempio personale con cui ho aperto questo articolo, che è avvenuto ormai quasi dieci anni fa, mi chiedo se e cosa sia cambiato oggi.
Se da una parte senza dubbio la lotta femminista, in questi anni così scarni di prospettiva creativa e tensione trasformativa, si è imposta nuovamente come una della maggiori spinte al cambiamento, ancora, l’ho sperimentato sulla mia pelle, percepisco come presente quella “frattura di classe” che fa sì che le urgenze all’ordine del giorno non rispecchino la realtà della maggioranza delle donne.
Per esempio, nella lotta per la libertà di scelta sulla gestione del proprio corpo e sulla maternità, troppo spesso si tende a non prendere in considerazione, o peggio ancora a svalutare, il fatto che “dietro all’attaccamento di molte donne al mito della maternità si nasconda la paura di perdere quello che viene visto come l’unico privilegio femminile, la nostra sola zona di potere”, così come nelle sacrosante lotte per la legalizzazione dell’aborto si tende a non ragionare su come fare a fornire alle donne gli strumento necessari a “cambiare la propria vita all’interno di un nucleo familiare eterosessuale, all’interno di una struttura patriarcale”: troppo spesso, ma per fortuna non sempre, si dà per scontato che la donna possegga, intrinsecamente in quanto donna, i mezzi e la consapevolezza per opporvisi da sola.
Tale affermazione, chiaramente, non vuole in alcun modo sminuire o negare l’importanza delle rivendicazioni di questi ultimi anni. Porre/imporre un problema con forza all’opinione pubblica come ha fatto e sta facendo, per esempio, Non Una Di Meno è un primo fondamentale passo verso un obiettivo che si spera nel tempo continuerà a evolvere, a pretendere di più, fino a sradicare il patriarcato, che non è che una delle forme dell’oppressione contemporanea, così come lo sono il razzismo o il classismo.
Prima di essere intervistata da Maria Nadotti, bell hooks le pone una domanda fondamentale: quale può essere in Italia, in una realtà così diversa da quella degli Stati Uniti, l’interesse per il suo punto di vista?
Facendo opera di autocritica, per noi il valore dell’insegnamento di bell hooks sta nell’imporci l’esercizio di partire da una prospettiva più ecologica, in grado di cogliere la complessità della vita reale dove diversi aspetti esistenziali (il genere, il reddito, il livello di istruzione e il luogo geografico e sociale in cui si cresce) determinano le possibilità, le capacità e la visione critica delle soggettività a cui vorremmo rivolgerci e con le quali vorremmo costruire una realtà diversa, più equa e inclusiva.
di Sara Marchesi
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