Prima di noi

Per poter recensire “Prima di noi”, l’ultimo romanzo di Giorgio Fontana edito da Sellerio, specialmente in questo strano e terribile 2020, dobbiamo fare due ammissioni.

La prima è che proviamo una naturale simpatia per l’autore. Non ci siamo dimenticati, infatti, di quando espresse la sua solidarietà a LUMe nei giorni caldi dello sgombero dell’estate di tre anni fa.

La seconda è che chi scrive ha molto apprezzato, dello stesso autore, “Morte di un uomo felice”, romanzo ambientato nel 1981 e che narra la fase finale della lotta armata in Italia. Una vicenda su cui spesso si sorvola e con cui, nel 2014, Fontana ha vinto il premio Campiello.

Partiamo quindi prevenuti, in senso favorevole, e ci sembrava buona e onesta cosa chiarirlo subito.

Innanzitutto, bisogna rendere merito all’autore di aver avuto coraggio, di aver saputo rischiare. Scrivere un libro di 900 pagine nell’era delle Instagram stories è, in un certo senso, eroico. E, d’altra parte, non possiamo che esprimere riconoscenza anche all’editrice Sellerio, che storicamente si è sempre esposta a rischi di questo genere, scommettendo su autori e testi che non promettevano la fascetta di “Best seller” e più di una volta se la sono invece conquistati.

Ancora più coraggioso è scrivere un’opera incentrata sulle vite di uomini e donne lungo l’intero corso del Novecento italiano. Un periodo complesso e tutt’altro che “storicamente pacificato”.

L’apertura del libro ci ha fatto subito pensare al “Novecento” di Bernardo Bertolucci. Se il film si apre nel fatidico 25 aprile 1945 e con la scena di un giovanissimo partigiano che tiene sotto tiro il “padrone” Robert De Niro con la celebre frase “Non ci sono più padroni!”, qui la scena iniziale è ambientata in un altro momento “fatidico” della storia italiana: la disfatta di Caporetto dell’ottobre 1917.

Qui un fante, Maurizio Sartori, diserta abbandonando (e quella della fuga/abbandono sarà un tema ricorrente) i suoi compagni e trova rifugio in un casolare della campagna friulana. Si imbatterà dunque nella rude e laconica ospitalità di Martino Tassan e della sua famiglia. Dopo la nascita di un amore segreto tra Maurizio e Nadia Tassan, la primogenita della famiglia, la ragazza rimarrà incinta e Maurizio fuggirà per una seconda volta, salvo poi essere ritrovato da Tassan padre ed essere convinto a ritornare per sposare la ragazza.

Da queste vicenda nasce una vera e propria epopea familiare che attraverserà ben quattro generazioni di italiani arrivando praticamente ai giorni nostri.

La vicinanza di Nadia migliorerà il cupo Maurizio, facendo emergere le sue qualità umane migliori. I due, messa su casa a Udine, daranno vita a tre figli, tre ragazzi diversissimi l’uno dall’altro. Il tutto nel corso del Ventennio fascista.

E sarà proprio il tritacarne della Seconda Guerra Mondiale a far emergere definitivamente i caratteri dei tre fratelli. Il cauto Gabriele, amante dello studio e della cultura, che finirà imboscato dopo l’8 settembre. Il buon Domenico, che si troverà a combattere in Africa vivendo il disastro finale della Tunisia nel ’43 e finendo prigioniero di guerra dei francesi. E infine il vitale e ribelle Renzo, che si avvicinerà ai “sovversivi”.

E proprio durante il conflitto mondiale accadranno due degli eventi spartiacque nell’esistenza della famiglia Sartori.

Il primo è la morte di Domenico durante la prigionia, uno dei momenti più coinvolgenti e filosoficamente intensi del libro. L’episodio si chiude con il dialogo finale e intensissimo con uno strano personaggio chiamato “il Profeta”, capace di riassumere in poche e chiare parole  una concezione capovolta del mondo, di cui ci sembra giusto citare qualche riga tanto è potente la riflessione in esse contenuta:

“Se il Dio che adoriamo non fosse che un angelo ribelle, esiliato in paradiso dal vero sovrano di questo universo – l’onnipotente Satana? […] Quindi è inutile pregare, è inutile sperare, perché – e qui sta il punto, il vero punto, che tutti si ostinano a non vedere – perché Dio non ha forze sufficienti per salvarci”.

Il secondo è la proibizione imposta a Renzo dalla madre di unirsi ai partigiani sulle montagne, che impedisce al ragazzo di vivere quello che sarebbe potuto essere IL momento decisivo della sua esistenza. Quello che svela ciò che un essere umano è in realtà. Questo divieto diventerà un macigno tra i due e Renzo non riuscirà mai a perdonare la madre.

I due fratelli sopravvissuti si trasferiranno entrambi in Lombardia, per l’esattezza nell’hinterland milanese. Renzo diventando operaio e militante del PCI a Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia” negli anni durissimi (per i comunisti) della ricostruzione, Gabriele professore a Saronno. Nonostante questo allontanarsi dalla terra natia, la friulanità rimarrà un tratto distintivo dei Sartori, capace di trasmettersi da generazione a generazione.

Ed ecco arrivare una nuova generazione, quella nata durante il boom, che vivrà la sua gioventù nei complicati anni Settanta. Compaiono così sulla scena Eloisa e Davide, i figli di Gabriele, e Nadia e Libero, i figli di Renzo.

Eloisa graviterà in un gruppo anarchico (e una sua compagna, Anna, finirà la sua parabola nella lotta armata) salvo poi “imborghesirsi”.

Davide, insofferente a ogni schematismo e rigidità ideologica, grande amante dei viaggi e della libertà, diventerà un famoso fotografo.

Nadia, figlia di un comunista tutto d’un pezzo com’è l’operaio Renzo, scoprirà la sua omosessualità e diventerà una cantante di un qualche successo.

E infine Libero, forse il più “insipido” dei quattro, credente e abbandonato dalla moglie che finirà missionaria in Africa.

Ed eccoci agli anni Ottanta, con il progressivo scolorire delle passioni politiche e degli ideali che hanno contraddistinto il “secolo breve”. Arriva una nuova generazione, quella di cui fa parte, anagraficamente, lo stesso Giorgio Fontana. Ed ecco comparire sulla scena Letizia, la figlia di Eloisa e Dario, il figlio di Libero. Una generazione che dovrà fare i conti con la consapevolezza devastante, assente dall’orizzonte di quelle che l’hanno preceduta, che “il futuro non è più quello di una volta”.

Nessuna speranza di stare meglio rispetto ai propri genitori. Nessuna grande narrazione di cui far parte. Un eterno presente con la scomparsa della Storia con la S maiuscola dalla narrazione: “Chi mai si interessava più del futuro? Il presenta era l’unico tempo rimasto”.

Ma toccherà proprio a Letizia il compito di chiudere il cerchio, ritrovando una lettera mai aperta, scritta anni prima dalla bisnonna Nadia in cui si racconta come tutto iniziò. Come nacque la famiglia Sartori con un atto non d’amore, ma di viltà: la fuga di Maurizio di fronte alla gravidanza non voluta di Nadia.

Uno dei punti di forza di questo romanzo è il continuo passarsi il testimone narrativo da parte dei protagonisti e Fontana riesce nell’impresa di tenere sempre viva l’attenzione del lettore. Quando poi ci si trova di fronte a qualche raro calo della tensione narrativa, ciò è compensato dalla maestria con cui l’autore riesce a raccontare i momenti decisivi dell’esistenza, soprattutto quelli legati alla morte, sempre narrati con delicatezza e profondità.

Se possiamo muovere una piccola critica, noi che siamo un “sito di movimento”, essa riguarda il non aver inserito nella narrazione un elemento potente di continuità, che avrebbe potuto rilanciare il testimone da una generazione all’altra nell’anno 2001, cui viene dedicato un capitolo, ma nel quale non c’è traccia di un evento in qualche modo spartiacque sia per l’Italia in generale che per la generazione nata nei primi anni Ottanta. Stiamo parlando del G8 di Genova. Un evento capace di testimoniare che la fiammella della rivolta è sempre accesa e pronta a divampare quando meno ce lo si aspetta, anche in tempi “paludosi” come quelli che stiamo vivendo.

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