Realismo Capitalista di Mark Fisher: sulla nostra maniacalità alternata alla depressione

Si, anche il tuo cellulare riceve in continuazione messaggi, più di quanti se ne possano leggere. Quelle rare volte in cui qualcuno ti chiama, rispondi a seconda dell’umore, giustificando poi la mancata risposta con un messaggino whatsapp;
Durante la giornata la musica ti accompagna sempre, anche quando non puoi ascoltarla e darti il tempo di scegliere il brano che desideri;
La sera quando sei a letto il tuo pc ti presenta un archivio infinito di film in streaming, più di quanti tu ne possa vedere. Le piattaforme ti suggeriscono i film che dovresti guardare, raramente hai cercato tu qualcosa.
Con i soldi e un cellulare si può avere tutto subito, e per qualche secondo sei felice: quando arriva un pacco, quando sei ricercat* sui social, quando esce la nuova serie su Netflix, quando ordini un sushi alle due di notte.

Maniacalità alternata ad ondate depressive è la realtà che la maggior parte dei giovani vive oggi; la felicità prima dell’acquisto del nuovo gadget e la delusione finito l’hype. Poco interesse, o nullo, su ciò che accade nella propria società; le opinioni vengono scambiate per analisi, e si limitano a 100 caratteri su Facebook.
A uccidere il futuro, e con esso il desiderio, è la logica sottostante a ogni nuovo modello di iPhone: i desideri vengono alimentati incessantemente nel consumatore attraverso variazioni minime tra un modello e il successivo.
La condizione consumistica e ipermediata del nostro godimento influenza inevitabilmente il nostro umore e il nostro equilibrio psicologico.
A questo sistema di ipercontrollo, all’essere costantemente iperconnessi, al (dovere del) piacere, la risposta più comune è ciò che Fisher chiama interpassività, ossia lasciare che il sistema goda al posto nostro.

Utilizzando le parole di Mark Fisher, “siamo pervasi da questo realismo capitalista, ovvero dalla sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”.

Un’affermazione che racchiude il fulcro del malessere della società occidentale contemporanea. La tesi è tanto semplice quanto necessaria, perché rivelatrice: il capitalismo ci ha privati di prospettive, assorbendo e riempiendo il nostro immaginario nella sua ideologia, al punto che non sappiamo inventarci un futuro che non vi sia immerso.
E se verso la fine del ventesimo secolo c’era chi sentiva il bisogno di un’alternativa per cui lottare, in questo nuovo millennio si fa fatica anche solo a percepire questa esigenza: i più giovani sono ignari della struttura artificiosa perché ci sono nat* e cresciut*.
Il progetto del neoliberismo di proporsi come sistema economico e sociale “naturale” è, dunque, riuscito perfettamente. Non solo in economia, dove Milton Friedman aveva descritto il libero mercato come infallibile perché mosso appunto da forze, a suo dire, naturali, ma anche negli ambiti della vita sociale e privata. E dunque, diventano naturali le mostruose diseguaglianze, lo smaltimento dello stato sociale, le discriminazioni, le privatizzazioni, lo sfruttamento del suolo, l’individualismo.
Invece che alla cooperazione, si viene educati alla competizione; le implicazioni del capitalismo, invece che essere riconosciute come sue dirette conseguenze, vengono scaricate direttamente sull’individuo, colpevole in prima persona della sua povertà, della sua solitudine, della sua depressione.
Da qui, lo scioglimento della coscienza di classe e la malattia mentale. Entrambi questi aspetti vengono affrontati in Realismo Capitalista, insieme all’analisi dei meccanismi con cui anche in altri ambiti – come il sistema scolastico, la burocrazia e l’arte – i ruoli, le abitudini e le regole vengono plasmati secondo le esigenze del modello neoliberista.

Ma Fisher elabora anche delle strategie, non ci fa rassegnare al fatto che “Non ci sono alternative”, come declamava la Thatcher.
Ci invita invece a comprendere che no, non è colpa nostra. Non siamo noi gli artefici delle nostre condizioni precarie psico-fisiche ed economiche, ma è il sistema in cui viviamo, una struttura che di naturale non ha nulla.
La risposta è che bisogna centrare l’attenzione sui reali, ossia le fratture, le contraddizioni che il sistema non riesce a risolvere. Fisher ne indica tre:
Il primo è la catastrofe ambientale, che mostra che il capitalismo, con la sua pretesa di sfruttamento illimitato delle risorse naturali, minaccia ora di distruggere l’intero pianeta.
Il secondo, sul quale soprattutto Fisher si sofferma, è la depressione. Il capitalismo subappalta la sofferenza ai singoli, facendo creder loro di essere gli unici responsabili per il proprio malessere. Ma, anche se molte persone sono depresse, la loro sofferenza non riesce a diventare un problema comune. C’è una “privatizzazione dello stress” che fa sì che chi ne soffre si consideri un malato da curare, non chi sconta sulla propria salute le conseguenze di un sistema sbagliato.
Il terzo reale è la burocrazia, che nel tardo capitalismo non è scomparsa, ma ha cambiato forma, diventando più capillare e pervasiva, pur in una apparente situazione di minor controllo.
Per Fisher, opporsi al sistema significa partire da queste sue tre contraddizioni, con forme di lotte strategiche nuove che da un lato richiamino su di esse l’attenzione, e dall’altro le contrastino con ogni mezzo necessario.

La prima strategia vale per la malattia mentale e la depressione, che esprimono un disagio che deve essere reindirizzato contro il sistema capitalista; la seconda, per la burocratizzazione del lavoro contro la quale lavoratori e lavoratrici sono chiamati a ribellarsi rivendicando nuova autonomia.

Nassi LaRage

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