“The Underground Railroad” – Quando l’America si guarda allo specchio

A poco più di due mesi dalla recensione di Alabama di Alessandro Barbero torniamo a parlare della storia degli Stati Uniti nel XIX secolo.

Si sa che quando si parla degli States spesso si dice che i due peccati originali con cui è nata e si è sviluppata quella giovane nazione sono: lo sterminio degli indiani e la schiavitù dei neri.

E proprio di quest’ultima parla The Underground Railroad, la serie diretta Barry Jenkins tratta dall’omonimo libro del 2016 di Colson Whitehead e recentemente arrivata in Italia.

Sia il libro che la serie prendono spunto da vicende storiche realmente accadute.

Negli Stati Uniti dell’Ottocento dilaniati dalla questione della schiavitù e prossimi alla guerra civile esisteva una rete clandestina che sosteneva la fuga degli schiavi neri dagli stati schiavisti del Sud (che nel 1861 avrebbero avviato la secessione e dato vita alla Confederazione) a quelli abolizionisti del Nord o addirittura al Canada. Purtroppo, trattandosi di una rete di appoggio e solidarietà sostanzialmente clandestina, pochissimi sono i documenti rimasti che ce la descrivono. Questa rete si chiamava per l’appunto “ferrovia sotterranea”.

Va ricordato che negli Stati Uniti di quel periodo gli schiavi non erano considerati esseri umani bensì proprietà. E uno dei fondamenti della Costituzione americana era ed è proprio la difesa a tutti i costi del diritto di proprietà. In questo quadro si inseriva il Fugitive Slave Act, una legge del 1793 approvata dal Congresso degli Stati Uniti che consentiva di catturare ovunque uno schiavo fuggitivo e riconsegnarlo al proprio “padrone”. Se uno schiavo scappava era considerato fuggitivo a vita. Non c’era quindi un tempo di prescrizione e aiutare i fuggiaschi era un reato federale. La legge diede il via a un vero e proprio mercato di “cacciatori di schiavi” al quale si opponevano coraggiosamente gli abolizionisti. Questo lo scenario terribile, ma storicamente vero in cui vanno a collocarsi le vicende narrate.

Sia Whitehead nel suo libro che Jenkins nella sua serie, entrambi sostanzialmente basati su una ucronia, immaginano che la “ferrovia sotterranea” sia una vera e propria ferrovia che si dipana sottoterra attraversando l’enorme territorio degli Stati Uniti portando gli schiavi fuggiaschi dal Sud al Nord. Il tutto in una situazione tra l’onirico e il lisergico.

La produzione narra la fuga da una piantagione di cotone della Georgia di proprietà dello spietato “padron Randall” di due schiavi: Caesar e Cora. Per difendersi da una caccia forsennata e da una punizione che si preannuncia sadica e terribile Cora, in una colluttazione durante la parte iniziale della fuga, uccide un ragazzo bianco: reato gravissimo e inammissibile nella società del tempo per cui rimarrà marchiata a vita.

La vicenda è una vera e propria via crucis. Una fuga ininterrotta che porta i due fuggiaschi ad attraversare diversi gironi dell’Inferno. Luoghi dove il razzismo assume aspetti diversi, ma tutti ugualmente mostruosi. E quindi assisteremo ad un viaggio attraverso la Carolina del Sud, la Carolina del Nord, un Tennessee spettrale devastato da giganteschi incendi per poi approdare in Indiana.

A inseguire i fuggitivi un cacciatore di schiavi feroce e in qualche modo tormentato: Arnold Ridgeway che si fa accompagnare come un’ombra da una figura particolare e inquietante, il suo aiutate che altri non è se non un bambino nero di nome Homer.

La serie, con una fotografia e una colonna sonora notevoli, non lascia nulla all’immaginazione. La si potrebbe definire cruda, essenziale e  straziante. Allo spettatore non sono infatti risparmiate scene di grande violenza. Nulla viene edulcorato come a dire: “Era proprio così! Non c’è redenzione né salvezza!”. Il tutto con una tensione continua e snervante che non cessa mai neppure nei rari momenti di quiete.

La narrazione è lenta come sapeva essere per certi versi quella di Sergio Leone e come del resto è quella di una serie di “romanzi della frontiera” come quelli di Cormac McCarthy.

Nella storia emerge con chiarezza tutta la durezza dei giovanissimi Stati Uniti d’America. Una ferocia che, pur mutando, è rimasta nel DNA della grande potenza mondiale. Una nazione priva di una “religione di Stato” ma piena di fervore (ma sarebbe meglio dire integralismo) religioso, di una presenza e uso costante delle armi da fuoco, del mito del “destino manifesto”, del dogma del diritto di proprietà e del continuo arrivo di immigrati da ogni angolo del globo.

In questo scenario il regista ha la capacità di indagare impietosamente anche una delle terribili dinamiche che contraddistinguono l’essere umano: il prendersela con chi ci sta sotto invece che con chi ci sta sopra, quando insomma i penultimi se la prendono con gli ultimi. Che siano immigrati irlandesi contro schiavi neri, schiavi neri affrancatisi contro schiavi neri fuggiaschi, sorveglianti neri delle piantagioni contro braccianti neri dei campi di cotone. La “guerra tra poveri” è una dinamica perversa e facile da identificare quando non la si vive in prima persona, ma non percepita quando la si vive quotidianamente o la si agisce direttamente.

Una serie dura e difficile da digerire, ma da guardare.

Un ritratto impietoso dell’origine dell’Impero americano. Noi italiani sapremmo fare altrettanto con le pagine oscure della nostra storia?

 

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