Reservation Dogs – I giovani salveranno il mondo?

Quando si parla di nativi americani, specie per noi europei che perlopiù non abbiamo mai avuto modo di conoscerne direttamente, l’immagine che salta alla mente si rivela spesso e volentieri datata ed esotica, legata all’immaginario hollywoodiano e all’idea del capo o del guerriero in lotta con i visi pallidi. Le tre stagioni di Reservation Dogs, serie prodotta da Taika Waititi (premio Oscar nel 2020 per JoJo Rabbit) e Sterlin Harjo, si prendono l’incarico di raccontarci i nativi di oggi.

La serie, la prima con un cast e una squadra di produzione interamente indigene, è ambientata in Oklahoma nella cittadina immaginaria di Okern, situata nella riserva indiana Muskogee. Qui, incontriamo i Reservation Dogs, quattro amici (Elora, Bear, Cheese e Willie Jack) che passano il loro tempo combattendo la noia e l’alienazione della provincia profonda americana commettendo piccoli crimini, contrapponendosi in una piccola e surreale “guerra” tra bande con l’altra “gang” giovanile del paese, sognando la California e cercando di riprendersi emotivamente dalla tragica scomparsa del loro amico Daniel.

Okern è un agglomerato di case malandate che offre allo spettatore un altrettanto malandato e scalcagnato aggregato umano fatto di assai poco convincenti poliziotti tribali, madri single esplosive, squinternati sciamani, rapper dalle dubbie qualità artistiche, operai edili con una passione per l’erba e la lentezza, ricettatori eruditi e tante altre strampalate figure. A ognuna di esse, i narratori riservano uno sguardo complice e compassionevole di fronte ai tanti guai dovuti a vite difficili ed emarginate.

Con un titolo che omaggia uno dei capolavori di Tarantino, Reservoir Dogs (da noi conosciuto come Le iene), di cui Bear ha infatti un poster nella sua camera, e dialoghi surreali alla fratelli Coen nel Grande Lebowski, la riuscita è assicurata.

Non c’è traccia, nella serie, di alcun vittimismo relativo a quello che è stato un vero e proprio genocidio perpetrato dai colonizzatori bianchi nei confronti delle numerose tribù indigene che popolavano quelle terre. Anche se si affrontano temi a volte molto pesanti come quello dei collegi indiani dove, sia in Canada che negli Stati Uniti, venivano portati bambini indiani sottratti alle loro famiglie nel tentativo di cancellare definitivamente la loro identità tra violenze e soprusi indicibili, il tutto viene fatto con grazia, leggerezza e la capacità di non perdere il sorriso: “Non possono impedirti di sorridere” sarà proprio uno dei mantra che emergerà dalla serie.

Il primo merito di Reservation Dogs è il tentativo, a nostro avviso riuscito, di far emergere la convivenza, all’interno delle comunità native contemporanee, di un’antichissima tradizione spirituale e il mondo di oggi, con le sue difficoltà e il diffuso malessere sociale. Da qui l’idea di far comparire all’interno della narrazione alcuni spiriti guida anche altamente improbabili, che suggeriscono tra l’altro quanto le religioni di questi popoli fossero più legate alla vita con tutte le sue imperfezioni e quindi più compassionevoli con gli esseri umani, a patto che mantenessero il rispetto per quello che li circondava.

I quattro giovani protagonisti, con le loro spesso improbabili imprese, sono il vero e proprio motore che permette di rimettere in contatto tre generazioni di nativi di Okern: quelli che erano giovani negli anni Settanta, i quaranta-cinquantenni (i più disastrati dal punto di vista esistenziale, a dire il vero) e la generazione Z di cui Elora, Bera, Cheese e Willie Jack fanno parte. Il tutto in un sottile ma continuo ribadire di quanto importante sia il senso di comunità come scialuppa di salvataggio di fronte alle burrasche che sconvolgono le esistenze dei singoli individui. Tutte e tre le generazioni di protagonisti sono unite dal fatto di aver dovuto fare i conti con un forte trauma, come a dire che questo è inevitabile quando si discende da un popolo che ha subito, e continua a subire, grandi ingiustizie. Le prime due si sono perse andando in frantumi e dividendosi. La terza, ai nostri occhi quella che rappresenta la vera speranza per il futuro, dopo aver rischiato di esplodere riesce a ritrovarsi. Nella terza stagione, sicuramente la migliore, pare addirittura riuscire a rimettere, con qualche toppa, le cose al loro posto. Ci piace pensare che questo sia uno dei messaggi che la serie voleva inviare e che è valido dentro quanto fuori dalla riserva.

 

 

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