The Bear: dalle stelle alla stalla (e ritorno?)
Per chi, come me, ha sempre amato Jeremy Allen White, il Lip Gallagher di “Shameless”, “The Bear” è comparsa letteralmente come un’epifania.
Persino le evidenti similitudini tra Carmen “Carmy” Berzatto e Lip non hanno minimamente intaccato la curiosità, amplificandola al contrario, per vedere dove la penna di Christopher Storer ci avrebbe condotto.
E la trama ci porta ancora una volta a Chicago, non più nel South Side, ma in un’altra zona suburbana indefinita, in cui è presente una folta comunità italiana. Carmy torna a casa dopo aver lavorato in uno dei migliori ristoranti d’America, a raccogliere l’eredità di suo fratello suicida, il “The Beef of Chicagoland”, ristorante di quartiere pieno di debiti e con una brigata, capitanata dal cugino Richie, totalmente refrattaria al suo tentativo di restituire al locale una parvenza di stile e decenza.
In questo contesto assurdo e frenetico, si intrecciano le vicende dei protagonisti, quasi mai slegate dal loro ruolo all’interno della cucina. Perché la grandezza di questa serie è anche quella di essere riuscita perfettamente a rappresentare cos’è una cucina, che si tratti di un ristorante stellato o di un fast food.
Questi ritmi, a tratti schizofrenici, sembrano rappresentare l’esigenza dei vari personaggi di colmare, attraverso il lavoro e gli sforzi che ne derivano, dei vuoti esistenziali che restano quasi sempre, tranne nel caso di Carmy o Richie, sullo sfondo della trama.
E il mondo del lavoro viene tratteggiato in tutta la sua durezza, come già successo in altre serie anglosassoni, senza mai scendere a patti e criticandone profondamente condizioni e ritmi a cui i vari protagonisti vengono sottoposti, costringendoli a vite insostenibili, qui rappresentate da una cadenza sempre crescente e da una frenesia che a volte può persino infastidire lo spettatore.
Il settimo episodio, un piccolo capolavoro di tecnica e contenuto, rappresenta perfettamente tutto quello che questa serie vuole raccontarci. Ritmi sincopati, rapporti umani spesso al limite, crolli emotivi.
Anche per quanto riguarda i personaggi è stato fatto un lavoro straordinario, e la straordinarietà risiede nell’ordinarietà con cui vengono descritti e tratteggiati. Qualcuno può trovare Richie stereotipato, figlio di una narrazione degli italo-americani già presente nel cinema e nella serialità (certe sue tute non possono non richiamare alla mente i Soprano), ma la sua peculiarità risiede nella sua totale sofferenza, personale, familiare, lavorativa. In Richie coesistono tutte le parti di quel sottoproletariato urbano americano mal tollerato ma necessario.
Fortunatamente, dopo qualche titubanza, una seconda stagione è stata confermata.
Personalmente tiferò perché Carmy (ecco, sul nome Carmen potevano fare una scelta migliore, ma gliela perdoniamo) e Sidney, la sua talentuosa aiutante, riescano nell’intento di rendere una bettola un ristorante di qualità, come desiderava il fratello, ma il tutto senza snaturarne il perfetto disequilibrio esistente.
RM
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