Fontana smentisce se stesso, il bonifico diventa caso politico

Dopo giorni in cui si ventilava l’ipotesi, nella tarda serata di venerdì arriva la conferma: la Procura di Milano iscrive il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla fornitura di camici da parte della Dama spa ad Aria, società responsabile per gli acquisti del Pirellone. Inutile cercare di tenere il conto: la lista di disastri della giunta Fontana durante l’emergenza Covid è lunga: le morti sospette nelle Rsa, i test sierologici del San Matteo di Pavia e Diasorin, le mancate zone rosse di Alzano Lombardo e Nembro. Fino alla vicenda camici, una fornitura inizialmente spacciata per donazione: 75.000, per l’esattezza e 7.000 kit sanitari che, come indica la commessa del 16 aprile, sarebbero stati venduti ad Aria per 513.000 euro dall’azienda di proprietà del cognato del governatore, Andrea Dini, e – al 10% – dalla moglie di Fontana, Roberta.

L’avviso di garanzia per il leghista è solo l’ultimo tassello dell’inchiesta condotta dai pm Furno, Scalas e Filippini. Nei corridoi del Palazzo di Giustizia c’è tutto il sospetto che i nodi da sciogliere siano ancora molti. Fontana, nel suo post su Facebook, dichiara di aver appreso la notizia dalla stampa ma si dice certo del buon operato della Regione. L’ironia dell’avvocato di Fontana, Jacopo Pensa – «Non ho abbastanza fantasia per immaginare l’ipotesi di reato» – cade nel vuoto perché gli inquirenti, per bocca del Procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, parlano di «frode in pubblica fornitura». Stando a quanto ricostruito fino a questo punto, il 19 maggio – quattro giorni dopo il servizio di Report, che aveva sollevato il caso – Fontana avrebbe cercato di effettuare un bonifico di 250 mila euro a suo cognato attingendo a un conto in Svizzera sul quale nel 2015 aveva scudato 5 milioni di euro. L’Unione Fiduciaria, a cui il governatore affida l’operazione, blocca il trasferimento, notando alcune anomalie. Parte la segnalazione all’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia, che la gira alle Fiamme Gialle e alla Procura.

Che Fontana volesse rimediare al mancato guadagno del cognato di tasca propria? Forse. Ma il maldestro tentativo diventa quasi grottesco se si pensa che ancora il 7 giugno, sostiene di non saperne nulla. L’avvocato Pensa prova a spiegare definendo il bonifico un «atto risarcitorio pensato quando Fontana viene a sapere della fornitura: per evitare equivoci, – continua il legale – gli ha detto di commutarla in donazione. Ma lo scrupolo di averlo danneggiato lo ha indotto a un gesto risarcitorio». Il mancato bonifico conduce però al tentativo di Dini dell’11 giugno di vendere parte della fornitura di camici, circa 25 mila, a una Rsa di Varese, “Le Terrazze”, a un prezzo di 9 euro al pezzo, anziché di 6, per rifarsi della mancata vendita ad Aria. Il tentativo va a vuoto. Una perdita significativa per Dama, soprattutto alla luce della mail del 20 maggio diretta ad Aria, allora guidata da Filippo Bongiovanni, che rinuncia al pagamento da parte della Regione per i 49.353 camici e 7.000 kit sanitari già consegnati.

Nell’interrogatorio di venerdì di Bongiovanni, è emerso che i pm starebbero verificando «se Dini potesse sottrarsi al dovere contrattuale di fornire alla Regione l’intera quantità per la quale si era impegnato». Bongiovanni e Dini, infatti, già indagati dai pm milanesi per turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente, lo sono anche per l’ipotesi di frode in pubbliche forniture, in concorso con Fontana. Si lavora anche per accertare profili di conflitto d’interessi da parte del governatore, ma non ci sono ancora elementi concreti sul tavolo. E mentre la Lega fa quadrato attorno al presidente, con Salvini che parla di «giustizia alla Palamara» e Forza Italia che tenta di dissimulare il fastidio per l’ennesima grana in ambito sanitario, le opposizioni insorgono. «Attendiamo che la magistratura faccia chiarezza – dicono i dem in Consiglio Regionale – ma chiediamo che Fontana venga a riferire in Aula quanto prima».

Posizione morbida rispetto a quella di alcuni esponenti del Pd nazionale. L’eurodeputato Pierfrancesco Majorino vuole le dimissioni, così come la deputata dem Lia Quartapelle che parla di «mala gestione dell’emergenza che non ha bisogno di aspettare la conclusione dei processi. Stessa linea anche per il M5s, la cui parola d’ordine è “dimissioni”». Affonda il colpo l’ex deputato pentastellato Di Battista che risponde a Salvini dandogli del «cazzaro, dozzinale e vile». Dibba, notoriamente meno moderato di altri all’interno del suo partito, aggiunge: «Se un portavoce del M5s venisse indagato per un appalto sanitario assegnato ai suoi familiari vorrei solo sapere rapidamente la verità».

di Francesca Del Vecchio

da il Manifesto del 26 luglio 2020

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