Il corpo della città: la resistenza del quartiere Gorla
L’aria che respiro a Milano è cambiata, il suo cuore pulsante mi parla di corpo, di voce e di memoria. La fiaccolata a Gorla per Pamela Genini ha esorcizzato l’esperienza del singolo, elevandola a simbolo di lotta e di contenimento del dolore emotivo collettivo. Io porto la mia testimonianza, di chi come tanti altri, portava con sè una candela e la propria rabbia, tra le mani, in via Iglesias.
Se pensiamo all’esperienza del corpo come vissuto soggettivo fine a sé stesso, non stiamo considerando molte cose. Primo fra tutti il corpo che c’è, in mezzo agli altri, si fa portavoce del dissenso in un terreno di rivendicazione, solo per il fatto di presenziare in piazza. Inutile girarci attorno, la collettività non ti obbliga mai ad esserci ma c’è un posto di diritto che ognuno di noi possiede da quando viene al mondo, e lo possiede pure chi lo rinnega. Che tu ne prenda parte o meno, rimarrà sempre una sedia vuota che ti aspetta e sarà stato come mancare all’appello rispondendo “assente” ad una chiamata, pure se nessuno ti conosce.
Questo articolo si vuole soffermare su alcuni punti, tra cui la postura di chi sceglie di esserci per una ragazza che non conosce, o che conosce di vista, o che anche fosse un familiare, sceglie di farsi accarezzare dal calore di chi non ha mai visto Pamela ma si commuove della sua mancanza. Di chi si fa dunque riconoscere nel dolore da una famiglia più grande e umana.
Ci siamo raccolti per molti motivi, forse il primo è la tragicità che la storia di Pamela ci lascia, perché non si può e non si deve tollerare più, la morte di una donna che sceglie di lasciare il proprio compagno e per questo ammazzata davanti ai suoi vicini, nella propria casa.
Non importa se il dolore, la paura che accada alle persone più strette, o anche la rabbia e la frustrazione perché non sembra mai l’ultima volta, la gridi o la taci. O se decidi di camminare piano, o più veloce, o ti commuovi, o non lo fai ma dentro hai comunque una morsa allo stomaco. Oppure se scegli di abbassare il capo, o scambi due parole col tuo compagno o compagna. Se sei lì, come anticipavo, il corpo parla per te.
Il profilo migliore di Milano è la sua gente quando abita le fatiche degli altri e le proprie, unendosi al grido comune di un ritorno ad essere comunità, al sentirsi appartenere a qualcosa di più, agli altri, e ad una causa. Si specchia nel dire cosa è sì e cosa è no, per civiltà, per educare ed educarci al rifiuto disinteressato e senza scrupoli di ciò che è male e di ciò che non tolleriamo più, come comunità tutta.
Insieme siamo partite, insieme torneremo, e questa è una promessa. Ma le perdite ci sono e continuano ad avere una risonanza sempre maggiore.
Il femminicidio come esito estremo della violenza di genere è parte di un problema sistemico e questo lo dicono i numeri, non è mai un caso isolato. È inutile conoscere i dettagli di ogni storia, estrapolarli dal contesto col gusto morboso di capire “che cosa debba essere stato”. Forse doveva denunciare prima? Che vita ha avuto lui? Sarà la differenza di età? Lei era più bella? La dinamica femminicida è sempre la stessa indipendentemente dal caso e traccia un segmento preciso intorno ai termini di possesso e di controllo.
Che il raptus non esista è un dato, la psicologia ce lo dice con assoluta fermezza e credibilità. Di fatto l’esito tragico del femminicidio affonda le sue radici nella violenza reiterata che inizia molto prima, con le parole, le umiliazioni, l’isolamento e la paura. È un’escalation. E se a monte la libertà di una donna ti fa sentire minacciato, di certo non si tratta della prova del tuo amore, ma della prova di una vulnerabilità potenzialmente pericolosa. E questo va tenuto a mente.
Ma la gente intorno alla panchina rossa, raccolta per Pamela e per tutte, non era lì per impartire lezioni o fare la ramanzina. A dire il vero, nemmeno per piangerla con passività sommessa e impotenza.
A mia sensibilità, la forza di quella fiaccolata potrebbe riassumersi in un istante preciso, che si inserisce nel momento esatto in cui il nome di Pamela Genini viene scritto bianco su rosso sulla panchina per la violenza di genere nei pressi di casa sua. L’episodio che riporto non è una circostanza da lasciare al puro caso, ma parla di qualcosa di ben preciso, di un sentire di qualcuno, e della forza della risposta del gruppo. Così un uomo ha preso la parola, e molto arrabbiato, voleva gridare vendetta contro chi uccide le donne incitando qualche forma di violenza. Ma la piazza non lo ha seguito, si è sollevata compatta, ha risposto cantando. E i canti hanno coperto la sua voce non tanto per negargli la rabbia (legittima ed umana) ma perché a Gorla si è scelta la nonviolenza come strumento di memoria e di resistenza.
Valentina Lardini
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