Nembro, viaggio nel focolaio del Coronavirus: il ritorno a una normalità che normale non è

I capannoni delle aziende accompagnano a destra e sinistra tutti i 15 Km di strada che separano Bergamo da Nembro. È l’inizio della Val Seriana, epicentro della diffusione del Covid-19 nella bergamasca. Si capisce bene, guardando alla quantità di camion incrociati, quanto siano forti gli interessi economici della zona.

Lasciata la SP 36 si sale a sinistra per raggiungere Nembro. Case indipendenti, palazzine basse, i balconi e le finestre sono una distesa di bandiere blu con la scritta “Insieme ce la faremo” e “Noi amiamo Bergamo” con un grosso cuore rosso al centro. C’è anche qualche bandiera dell’Atalanta, ma questa è un’altra storia, anche se in comune con le altre ha il senso di comunità che si respira da queste parti.

nembro bandiere finestre

“Dopo la fase dei lutti, questa è quella del ritorno alla comunità” mi dice Don Matteo, giovane e dinamico parroco di Nembro, sintetizzando la differenza tra fase 1 e fase 2. “Questo è il momento della ripresa del lavoro e della socialità nel rispetto della sicurezza” mi dirà mezz’ora dopo il sindaco di Nembro Claudio Cancelli. “È il momento della voglia di normalità, ma c’è ancora paura” mi aveva detto prima di entrare in fabbrica un operaio di un’azienda di materiale elettrico. Tre sguardi su Nembro, la Val Seriana, il Covid, che qui ha fatto migliaia di morti.

A Nembro, 11 mila abitanti, a marzo i decessi sono stati il 1.000% in più rispetto all’anno scorso. Oltre 180 decessi riconducibili al Covid in due mesi e mezzo. In un solo mese, marzo, a Nembro sono morte tante persone quante di solito ne muoiono in un anno. Mentre nel resto d’Italia ci si faceva forza con lo slogan “andrà tutto bene”, qui non andava tutto bene. “All’inizio i genitori avevano fatto disegnare ai bambini l’arcobaleno con quella scritta, ma abbiamo capito in fretta che non raccontava la realtà” dice Don Matteo, perché a Nembro non stava andando tutto bene.

Ora invece sono comparse quelle bandiere blu con la scritta “Insieme ce la faremo”, un regalo di un’azienda locale al comune che i cittadini hanno apprezzato. “Sono tante, sì. Restituiscono un po’ di questa voglia di ripartire”. Don Matteo ha sperimentato la messa in streaming su Youtube, “la vedono più persone di quelle che vengono a messa la domenica” confessa. “Non c’è fretta per aprire le Chiese, in questo periodo difficile chi crede ha ritrovato anche una dimensione più intima con la fede e poi è divertente sperimentare con la tecnologia, anche per i ragazzi che mi hanno aiutato e che hanno coinvolto genitori e nonni”. Don Matteo ogni mattina manda un podcast di tre minuti alla sua comunità con una lettura dal Vangelo e un commento. Qualche giorno fa era in una call Skype con alcune persone e ha ricevuto una telefonata molto particolare. “Era Papa Francesco, incredibile. La prima cosa che mi ha detto è stata che non era uno scherzo”. Il Papa lo ha chiamato per complimentarsi per quanto fatto in questi mesi nel comune col più alto tasso di morti in Italia.

Nel centro storico il panettiere ha riaperto e qualche lavoratore in pausa pranzo è in coda per una focaccia o un panino, la farmacia non aveva mai chiuso, nella piazzetta alcune signore sono sedute sulle quattro panchine che formano un quadrato, ognuna su un lato della panchina, distanza di sicurezza rispettata, mascherina al volto.

Nembro e Alzano: la mancata zona rossa

Questo è il territorio della mancata zona rossa dove il virus ha seguito la rotta delle merci che Confindustria e politica non hanno voluto fermare quando sarebbe stato necessario. Poi molte aziende hanno chiuso da sole indipendentemente dai decreti, ma era troppo tardi, il virus era già ovunque. “Ora sento freddezza verso la politica” dice ancora Don Matteo. “Regione e Governo sono lontani, hanno detto cose contraddittorie”. Altre decisioni politiche probabilmente avrebbero scritto un’altra storia, invece è stata una strage, anche per paura di chiudere per tempo i luoghi di lavoro e fermare l’economia. “Le persone hanno riscoperto invece una vicinanza con la dimensione locale della politica” dice Don Matteo prima di salutarmi e tornare al suo podcast quotidiano.

Il palazzo del Comune è poco distante, scendo a piedi costeggiando la scuola materna Crespi-Zilioli, chiusa da inizio marzo. “Ora si riapre con prudenza” mi dice il sindaco Claudio Cancelli. “Seguiremo le indicazioni nazionali, non faremo ordinanze comunali”. Riaprire a metà, con le scuole, gli oratori  e i centri estivi chiusi, sta mettendo in difficoltà le famiglie che non possono lasciare i bimbi piccoli ai nonni. “Abbiamo avviato un’indagine con le famiglie con figli fino ai 14 anni” spiega il sindaco, “in due giorni ci hanno già risposto in 250 e il 20-25% sono famiglie che hanno ripreso a lavorare e non sanno a chi lasciare i propri figli”.

È il ritorno a una vita normale che normale non è. Ma è stata fatta un’indagine sanitaria prima di riaprire? Sapete quanto diffuso il contagio, chiedo al sindaco. “No, purtroppo Ats Bergamo ha fatto solo un’indagine a campione con i test sierologici sul 2-2,5% della popolazione”. Errori della fase 1 che si ripetono anche nella fase 2. “Non mi sembra che la Regione abbia capito dove ha sbagliato perché la medicina del territorio è ancora abbandonata e la strategia sanitaria delega ai privati”.

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C’è un’altra cosa che al sindaco Cancelli non va giù, l’arroganza di chi dai vertici della giunta regionale ha detto “rifarei tutto quello che è stato fatto”. “Ma come si fa a dire una cosa simile. È evidente che quello che è stato fatto è stato inadeguato. Io non voglio distribuire colpe, tutti abbiamo fatto errori per impreparazione o sottovalutazione. Il nostro sistema ha funzionato meno bene di quanto ci saremmo aspettati, per questo non possiamo pensare di rifare tutto quello che è stato fatto”. Una sicurezza che si scontra con la tragica realtà che fa della Lombardia la regione con il maggior numero di morti e contagiati d’Europa e la più criticabile gestione politica della crisi. Arroganza che a fine febbraio e inizio marzo viaggiava alla grande tra Milano e Bergamo, due città dove era diffuso il pensiero che non era necessario fermarsi per sconfiggere il virus. “Il ridimensionamento di questo pensiero forse è il cambiamento più grande che ho visto tra fase 1 e fase 2” mi aveva detto l’operaio prima di entrare per il primo turno in azienda. “Ora c’è consapevolezza, ma la paura non se n’è andata”. Poi aggiunge “paura anche che la voglia di normalità possa farci tornare a un mese fa. Non so più che dire”.

di Roberto Maggioni

da Radio Popolare

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