“Non ce la facciamo più”: la testimonianza di un’infermiera del Trivulzio
Un’infermiera del Pio Albergo Trivulzio denuncia: non è cambiato niente, anche dopo le denunce e le inchieste. “I pazienti continuano a essere spostati di reparto in reparto, gli operatori si ammalano. E noi facciamo fatica a reggere psicologicamente“.
L’intervista di Luigi Ambrosio e Florencia Di Stefano-Abichain a Tempi Diversi.
Continuano a spostare i pazienti da un reparto all’altro e continuano a spostare soprattutto noi dipendenti, che venivamo a mancare sempre di meno, da un reparto all’altro. Non c’è fine a questo strazio.
Quando dice “stanno ancora spostando i pazienti“, di quante persone stiamo parlando?
Stiamo parlando di 7 pazienti che da venerdì scorso a ieri sono già stati spostati due volte da un reparto all’altro e in orari impossibili. A mio avviso i pazienti non si spostano alle otto di sera per non farlo sapere a nessuno. Queste persone sono state spostate da un reparto all’altro, aggiunte ad altri pazienti di un altro reparto in cui c’erano delle positività. Li hanno presi come dei pacchi postali questi pazienti?
Con quale motivazione i pazienti vengono spostati da un reparto all’altro del Trivulzio?
Sostengono che lo spostamento sia necessario per la sanificazione dei reparti. Però finché i pazienti girano così non sanificano niente: sanificano in un posto e contagiano in un altro.
Voi chiedete ai dirigenti per qualche motivo vengono prese queste decisioni?
Noi in questo momento non abbiamo neanche il tempo per respirare. Siamo sotto organico: ci sono 250 operatori sanitari, infermieri e fisioterapisti in malattia. Non c’è più nessuno e quando siamo in reparto a lavorare dobbiamo lavorare.
Quei 250 sono tutti in malattia per il COVID-19?
Sì, certo. Oggi abbiamo saputo che uno dei fisioterapisti è stato messo prono perché non respira e non so se ce la farà. È in terapia intensiva da tanto tempo. Siamo tutti molto amareggiati.
Gli ospiti come stanno in questo momento?
Quelli che sono positivi e che hanno i sintomi del COVID stanno veramente male. Gli altri, poverini, se non stanno male per il COVID sono comunque depressi. È una vita che non vedono i familiari e non vedono nessuno. L’unico loro punto di riferimento siamo noi, ma cosa possiamo fare più che consolarli? Noi che siamo in 2 invece di essere in 4 a lavorare, noi che veniamo lasciati da soli di notte invece di essere in 2 come dice il regolamento. Spesso e volentieri, invece, ci lasciano da soli. Ormai lasciare da solo un infermiere è una pratica, perchè “tanto poi arriva l’altro ad aiutarti se hai bisogno“: se arriva l’altro infermiere è perchè l’altro reparto resta scoperto. E non si deve lavorare mai da soli, perché l’assistenza al paziente si dà in 2.
Questo vuol dire che non si riesce a dare assistenza alle persone.
Come si deve, sicuramente no.
Secondo te c’è qualcosa che sfugge alla magistratura?
No, non credo. Ma sentire anche noi che lavoriamo lì dentro forse sarebbe meglio.
Cosa vuol dire che i pazienti COVID erano stati messi in un reparto chiuso?
Il reparto in cui sono stati messi i pazienti positivi non era un reparto chiuso. Era un reparto in cui c’erano altri pazienti e in cui il personale doveva passarci in mezzo per andare in un’altra ala. Questi sono particolari che contano. Non erano chiusi in una stanza sigillata. Era un reparto normale. Loro hanno sempre detto di non aver mai preso pazienti COVID, ma non hanno neanche mai fatto un tampone per vedere se erano positivi o negativi. E, comunque, i primi ad essere contagiati o a stare a casa in malattia sono proprio le persone che hanno preso in carico questi pazienti quando sono arrivati. Chissà come mai… Per la direzione non sono mai stati positivi, ma non possono neanche affermare il contrario perché non hanno mai fatto un tampone all’arrivo.
Cosa si può dire a molti dei nostri ascoltatori che hanno dei parenti al Pio Albergo Trivulzio e che da giorni o settimane non riescono a mettersi in contatto con loro?
Come infermiera posso dire loro di stare tranquilli. Noi vigiliamo, facciamo loro una carezza e in qualche modo li confortiamo. Non posso dire di più. Questo facciamo: aiutarli, cambiarli, consolarli. Non possiamo fare altro. Noi tutto questo lo facciamo per loro e anche per noi, perché anche noi abbiamo a casa delle famiglie da tutelare.
Deve essere essere difficilissimo per voi anche dal punto di vista psicologico.
Non ce la facciamo più, credimi. Non ce la facciamo più.
In quanto personale avete del supporto psicologico?
No, non abbiamo mai avuto un supporto del genere. Ci consoliamo e ci facciamo forza a vicenda. Io ho 63 anni, ne ho tanto di lavoro alle spalle, ma una cosa così non l’avevo mai vista.
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