Sul fronte orientale avvenne l’anticipazione del crollo del Muro
Il fronte orientale, i Balcani e la caduta del Muro.
Chi ha fatto cadere il Muro di Berlino? La risposta la trovai in Pakistan dopo l’11 settembre 2001 nella lussuosa villa alla periferia di Islamabad del generale Hamid Gul, capo dei servizi pakistani. Gul mi accolse con i baffi ben curati e una candida jallaba bianca. Ero lì per parlare di Osama Bin Laden, il fondatore di Al Qaida, che lui conosceva benissimo come del resto tutti i capi jihadisti in quanto negli Ottanta insieme alla Cia aveva contribuito in prima persona alla vittoria dei mujaheddin afghani contro l’Armata Rossa. A Washington lo chiamavano il Padrino della geopolitica del Jihad.
Non fu un caso, forse, che nel maggio 2011 Bin Laden venisse ucciso dagli americani nella città pakistana di Abbottabad dove si nascondeva da tempo. Ed erano stati proprio i pakistani negli anni ’90 a incoraggiare l’ascesa dei talebani fino a conquistare Kabul manovrando il jihadismo in funzione della «profondità strategica» di Islamabad e del conflitto in Kashmir con l’India.
Hamid Gul mi indicò una teca con un pezzo di cemento. «Ecco vede – disse Gul – quello è un mattone del Muro di Berlino abbattuto nel 1989. Me lo ha spedito un amico di Washington, un generale americano». E mi mostrò una lettera che accompagnava quell’insolito regalo con una frase sottolineata in rosso: «Caro generale Hamid Gul il Muro di Belino è caduto anche grazie a lei».
C’era una logica stringente. Il capo dei servizi pakistani era stato colui che aveva diretto diversi gruppi della resistenza afghana che avevano costretto al ritiro l’Armata Rossa indebolendo con una disfatta epocale tutto il sistema sovietico. In realtà Mosca non fu sconfitta solo dai mujaheddin ma da una delle più grandi coalizioni clandestine della storia cui parteciparono attivamente Stati Uniti, Pakistan, Arabia Saudita, Iran, Cina, Gran Bretagna, Egitto. Furono loro a picconare a distanza il Muro di Berlino.
Quel sistema sovietico lo avevo visto incrinarsi, vacillare e subire una pesante sconfitta proprio in Afghanistan dove l’Urss era intervenuta il 27 dicembre 1979 per sostenere un governo filo-sovietico. La guerra afghana aveva messo a dura prova Mosca.
All’inizio i mujaheddin erano male armati ma gli americani, che avevano visto cadere nel 1979 lo Shah in Iran sotto i colpi della rivoluzione khomeinista, colsero l’occasione per incastrare i russi in una guerriglia di logoramento che Mosca pagò con 15mila morti e la popolazione afghana con 500mila vittime.
Da Washington cominciano a organizzare il sostegno ai ribelli afghani appoggiando la retrovia pakistana di Pesahwar dove aveva sede anche la Legione straniera dei combattenti provenienti da tutto il mondo musulmano. Era lì, sul Khyber Pass, che si doveva andare per entrare in Afghanistan. I servizi pakistani aiutavano i mujaheddin, l’Arabia Saudita finanziava le operazioni mentre americani e inglesi dirigevano le danze rifornendo i mujaheddin con i missili terra-aria Stinger, un’arma micidiale che fece fuori oltre 300 aerei ed elicotteri sovietici.
Quell’anno, nell’inverno del 1989, mesi prima del crollo del Muro di Berlino, ci fu il ritiro definitivo dell’Armata Rossa cominciato quasi un anno prima in base agli accordi di Ginevra tra la Repubblica Democratica dell’Afghanistan e il Pakistan. Sui media europei e americani si intonavano peana all’eroica resistenza dei mujaheddin che anni dopo sarebbero diventati i jihadisti «nemici dell’Occidente». Ma allora erano alleati funzionali ad assestare un colpo mortale ai sovietici.
Il 15 febbraio 1989 il generale Boris Gromov fu ultimo militare sovietico a lasciare l’Afghanistan, attraversando a piedi, impettito, il Ponte dell’Amicizia sul fiume Amu Darya, al confine tra Afghanistan e Uzbekistan. A noi cronisti non restò che segnare sui taccuini i dettagli di una giornata di sole simile a quella di qualche mese dopo a Kosovo Polje, quando il 28 giugno del 1989 furono rievocati i 600 anni dalla battaglia del Campo dei Merli tra serbi e ottomani. Fu lì che Slobodan Milosevic pronunciò la famosa frase, «là dove c’è una tomba serba quella è Serbia». Iniziava così la disgregazione della Jugoslavia, lo stato più multi-etnico e multi-religioso d’Europa.
Il crollo del Muro di Berlino fu anticipato da questi eventi. Hamid Gul mi mostrava quel pezzo di Muro sotto vetro con orgoglio mentre nell’autunno del 2001 si preparava una nuova guerra che dura ancora oggi dopo 18 anni. E adesso, che si parla di un ritiro americano dall’Afghanistan, quale altro Muro cadrà? Forse vedremo dissolversi lo scudo della Nato che Macron diagnostica in «morte cerebrale», soffocata tra l’indifferenza di Trump e la criminale spregiudicatezza di Erdogan. Una sorta di rivincita, 30 anni dopo, per la Russia di Putin.
di Alberto Negri
da il Manifesto del 9 novembre 2019
https://www.youtube.com/watch?v=q1w6TJTYMIY
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