Vietare la vendita d’asporto non è una misura di salute pubblica, ma di limitazione dello spazio pubblico

Non è una novità post pandemia che le amministrazioni comunali attacchino le forme di socialità, soprattutto informale, nelle città.
Non stupiscono retoriche, dichiarazioni di sindaci, e titoli a nove colonne sui giornali main-stream. Non è nemmeno nuova la dinamica di un racconto generazionale, giovani vs anziani/e, ma se le foto degli “scandali” si osservassero con attenzione si vedrebbe che il dato “generazionale” non esiste ed è una semplificazione poco utile. Proviamo a fermare il tempo e far finta che non si sia in pandemia, cosa si sarebbe detto sugli attacchi “al popolo dell’aperitivo”? Probabilmente il dibattito si sarebbe schiacciato su due poli: la difesa della vita nello spazio pubblico vs la difesa del diritto al sonno e del quieto vivere. Poche e circostanziate voci avrebbero provato a ragionare sulla diversità di necessità individuali che necessariamente, in una città e/o metropoli, generano scontro e quindi necessiterebbero di un dialogo, sapendo che nessuna delle polarizzazioni è di per sé sbagliata ma nemmeno giusta. Al di là del dibattito, la politica avrebbe usato lo scontro per provare a portare avanti l’idea di città che più aggrada i governanti. Spesso rispondente alle logiche del decoro, e quindi al sogno di una città asettica e disciplinata con un ultra-perimetrazione dello spazio urbano, dove lo spazio pubblico deve essere solo uno spazio di passaggio, con la vita delle persone che si svolge dentro luoghi privati ed adibiti a rispondere alle diverse esigenze. Questo l’abbiamo già visto, per esempio, nei parchi delle città, dove in molti è stato vietato il gioco della palla, di fatto favorendo lo spostamento delle persone in quei luoghi dove il gioco della palla è consentito, magari perché a pagamento. Come sostenevo nell’incipit, l’attacco ad alcuni luoghi e modalità di vita sociale viene attenzionata dalle amministrazioni da tempo.

L’attenzione di solito ha generato la lotta alle forme informali di socialità, con delibere e dibattito pubblico volto a reprimere la vita sociale in parchi e piazze spostando il tutto dentro gli spazi del consumo andando così a costruire e creare aree urbane piene di locali e bar, zone che si riempiono, anche del via vai di chi cerca un posto a tavola per fare l’aperitivo. Piazzale Arnaldo a Brescia o i Navigli a Milano sono il risultato di anni di spostamenti coatti e creazione di aree franche e devote a quel tipo di “aggregazione e socialità”. Non è casuale che Navigli e piazzale Arnaldo siano anche luoghi dello scontro tra abitanti e utenti, scontro che in quelle aree generalmente veniva vinto dagli utenti.

Usciamo dall’atemporalità e rientriamo all’oggi. Uso le foto “scandalose” di Piazzale Arnaldo o dei Navigli, (parlo di queste due città e zone perché le conosco meglio di altre, anche se in maniera parziale), perché iconiche per affrontare una parte, forse marginale, del discorso “ripartenza”. Il dibattito su quei luoghi quindi cambia, la polarizzazione non guarda al diritto ma ai rischi sanitari, tra chi attacca chi si ammassa a bere l’aperitivo e chi invece giustifica. Pare mancare un passaggio: perché aree urbane costruite ad hoc per avere centinaia di avventori, con bar l’uno attaccato all’altro, e un via vai “strutturale” di chi cerca un tavolo e aspettando beve qualcosa in strada non sono state gestite in maniera particolare, e con la dovuta cura, lasciando agli esercenti la scelta se aprire o meno, e anche sul come aprire? Si potrebbe dire che le amministrazioni non hanno il “potere” di intervenire su tutto, vero, rispondo. Ma se l’area è delicata le amministrazioni, responsabili della governace, hanno l’obbligo di affrontare la questione, cercando, anche forzatamente, forme di concertazione che uniscano il diritto all’aggregazione e la socialità con l’attività economica dei commercianti e la cura della salute pubblica. E’ stato fatto? Forse in parte, o meglio dire che probabilmente con modalità formali sì, quasi certamente trattando ogni bar nella stessa maniera. Sembrerebbe che per alcune amministrazioni sia stato comodo si generasse il caso, perché con la scusa della tutela della salute pubblica si è potuto accelerare sugli scontri di cui parlavo all’inizio, e risolverli in maniera repressiva.

Le responsabilità sono ampie e condivise? Sì certamente. Ma se premiamo sul tasto della responsabilità non possiamo accettare che le scelte individuali, dei commercianti e della politica abbiano lo stesso gradiente. Se è certo che alcuni commercianti hanno riaperto “come se nulla fosse” e la politica ha trovato forme d’interesse nello speculare sulle immagini degli aperitivi e creato caos comunicativo, le scelte individuali, che non devono essere per forza difese e considerate corrette nel nome del diritto alla socialità, scontano le ambiguità della comunicazione e certo anche le variabili umane, e uso le parole di Alessandro Diegoli, conduttore di Radio Popolare, su Facebook per spiegarlo “il tira e molla tra allentamenti e strette che disorienta tutti quanti è figlio di una gestione seicentesca dell’epidemia, non dei comportamenti dei singoli. Siamo stati irreprensibili per settanta giorni, tutti a casina o in giro con l’autocertificazione e, invece di darci una pacca sulla spalla spiegandoci le ragioni di scelte impopolari, ci trattano come svantaggiati con quel tono tra il paternalista e l’autoritario“. Quindi che politica, commercianti e singoli cittadini abbiano stesse responsabilità è da respingere ed in più sarebbe interessante indagare su come gli atteggiamenti individuali rispondano alla costruzione di un clima e del discorso egemone. E poi siamo sicuro che siano stati fatti errori individuali? Davvero ci siano stati quegli assembramenti e questi stiano generando una circolazione del virus? La prima foto dei Navigli è di inizio maggio, e i dati ufficiali ci parlerebbe di un costante calo dei contagiati. O forse non ci viene detto qualcosa?

Fatto sta che oggi, casualmente, i luoghi che fanno “caso” siano quelli, mi pare, che in diverse città erano già all’interno di accese discussioni e dibattiti. “Casi” ampiamente prevedibili, quindi, e che casualmente si sono verificati nei primi giorni di “riapertura”. Mi pare che si stia vivendo però un cambio di fase sull’argomento generale e quindi non più, solo, lo spostamento dell’aggregazione informale in aree del consumo ma un vero e proprio confinamento delle persone dentro gli spazi del consumo, e lo svilimento dello spazio pubblico a mero luogo di attraversamento e passaggio. Non che questo non fosse già in corso, ma ora pare ci sia il piede sull’acceleratore. La scelta di Sala di bloccare la vendita “delle bevande d’asporto” risponde a questa logica binaria e si somma ai dispositivi repressivi già in vigore come il daspo urbano. Così come a Brescia. Piazzale Arnaldo, dove sono stati aperti moltissimi locali e per anni è stato luogo di ultra-tolleranza, anche a discapito di altre aree della città invece fortemente represse per la presenza di persone e socialità, da mesi era sotto gli occhi e la polemica, e ora i presunti errori individuali giustificano il giro di vite. Di fatto si cerca di confinare le persone dentro i locali, e le loro estensioni esterne (che in questa fase vivono di allargamenti spropositati). Nulla di imprevedibile, ma accelerato usando la salute pubblica come scusa.
Detto questo si apre un ragionamento serio da fare, anzi duplice: è sensato difendere quel modo di concepire e vivere lo spazio pubblico tutto volto al consumo? Come, in tempi di pandemia, ripensiamo e ridefiniamo lo spazio pubblico, anche come spazio di socialità e cura, unendo esigenze umane, aggregative e sanitarie per imporre un discorso diverso.

P.S. Mentre scrivevo queste righe a Brescia il Comitato per l’ordine e la sicurezza ha disposto, per tutta la città, lo stop al servizio si vendita d’asporto, di bibite alcoliche,  dopo le 20 (dal giovedì alla domenica), garantendo la possibilità di consumare al tavolo (o a casa propria) e per far rispettare l’ordinanza una intensificazione dei controlli. Il divieto di vendita da asporto, sia degli alcolici che delle bibite, non solo sarà solo per bar e ristoranti ma anche per supermercati e negozi del vicinato.

Andrea Cegna

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