ACAB, dopo la contestazione, la recensione

“Non decolla. Questo film non decolla…”.
Questo è ciò che mi sono ritrovato a pensare assistendo alla proiezione di ACAB.
Se la serie di Romanzo Criminale (più la prima parte che la seconda a dire il vero) aveva una sua grandiosità, il film tratto del libro del giornalista di Repubblica Carlo Bonini non riesce a bissare in termini di qualità l’opera sulle vicende della Banda della Magliana.

La storia è quella di un gruppo di celerini romani alle prese con scontri di stadio, botte ad operai, rimpatri di migranti rinchiusi in centri di detenzione, sgombero di campi rom e di case occupate.
I personaggi principali sono cinque.
Cobra, il capo-branco del reparto. Gran picchiatore e fascista dagli sprazzi di contraddittoria umanità.
Cobra, è quello che rimane coerentemente fedele all’ideale del branco e dei “fratelli celerini” da difendere fino all’ultimo perché, come dice alla giovane recluta Costantini, “Se non fai parte di un gruppo non conti un cazzo”. Poco importa poi se la legge del gruppo violi la legge dei codice.
Mazinga, il “celerino stanco”. E’ quello nel reparto da più tempo. Lo vediamo nella sua fase di “declino” assalito dai primi dubbi sul senso di quello che ha praticato per una vita intera. Accoltellato alla gamba durante un Roma-Napoli; la ricerca dei suoi accoltellatori è uno degli elementi su cui si regge il film. Ricerca che porterà ad una sorpresa finale ed allo scontro col figlio militante neo-nazista.
Negro. Totalmente travolto dal divorzio dalla moglie cubana (che arriverà a picchiare) e dalla battaglia per l’affido della figlia.
Carletto. Interpretato da Andrea Sartoretti, l’indimenticabile Bufalo di Romanzo Criminale. Fascistissimo
viene cacciato dal Reparto Mobile perché, come dice Cobra, ad un Roma-Inter ha preso una sassata che gli ha rotto il timpano e di conseguenza ha rotto la testa a due che non c’entravano nulla ed alzato le mani
ad un funzionario. Finisce a fare la guardia giurata ed è il propugnatore del “Padroni a casa nostra”,
vero e proprio mantra che guida i personaggi del fim (e, guardacaso, anche i nazisti romani, sempre presenti nel film).
L’ultimo protagonista è il giovane “Spina” Andrea Costantini. Ex-coatto delle periferie romane, ex-attivista di sezione di destra e novello celerino. Viene iniziato alla professione dai suoi colleghi più esperti e preso sotto l’ala protettrice di Cobra. Alterna continuamente sprazzi di violenza dettati anche da una situazione familiare tutt’altro che facile a momenti sempre più forti di dubbio su quello che fa. Emblematiche due frasi dette in due momenti importanti del film.
La prima, pronunciata durante lo sgombero di appartamenti occupati da povera gente, è: “Perché buttare in mezzo alla strada la gente ti semba un lavoro?”. La seconda frase è: “Cercavo un lavoro onesto”. Costantini saprà stupirci rompendo l’omertà da branco ed il silenzio dettato dallo spirito di corpo e pagandone le conseguenze.

Uno degli elementi portanti del film è l’odio.
Tutti odiano.
I celerini odiano i migranti (odio totale ed incondizionato) ed ultras, i nazi odiano i migranti ed i celerini e così via in una spirale perversa.
Il tutto in un continuo avvitarsi di una guerra tra poveri dove le vere responsabilità del disastro di questo paese non vengono nè colpite nè tantomeno nominate (tranne forse, dal giovane Costantini). L’Italia è insomma un paese in preda ad una guerra a bassa intensità e per un po’ di sicurezza (presunta)
la società delega agli “esperti” della questione (celerini o teste rasate che siano) il tenere sotto controllo il bubbone che da un momento all’altro rischia di esplodere. Ma come diceva Benjamin Franklin: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza”.

Il secondo tema saliente sono i migranti (e ciò che ne deriva).
Miganti che spacciano, migranti che occupano le case, migranti arroganti che riducono a porcile un parco pubblico, migranti che stuprano, migranti arrogantissimi che chiedono l’elemosina in modo insistente fuori dal supermercato,  migranti che lavano i vetri…
La nuova peste insomma.
Il passo successivo e quel che deriva da questa presenza ingombrante ed insopportabile è il motto: “Padroni a casa nostra”. Lo dicono in coro i celerini, lo dicono in coro i nazisti, lo dicono in coro i politici, lo dicono in coro gli abitanti di Roma… Stucchevoli e monotoni.
Peccato che, come poi il film tenti di far emergere (sensa riuscirci però) il “Padroni in casa nostra” venga coniugato in un’italianissima versione di “Pardoni a casa nostra per farci i comodacci nostri”. Del tipo: “Tutti devono rispettare la legge, tranne me ed i miei amici”. E da qui scene di celerini che mettono in piedi squadrette in borghese per giocare ai giustizieri della notte e fottersene della legge che avrebbero giurato di servire.
La questione dei migranti viene presentata un po’ come luogo comune.
E’ chiaro, per chiunque abbia un po’ di conoscenza della strada, che ci sono un sacco di migranti che delinquono. Ma è altrettato vero che l’essere pezzi di merda non deriva certo dalla provenienza o dal colore della pelle. Come delinquono i migranti delinquono gli autoctoni. Senza nessuna sostanziale differenza.
Ci voleva la crisi economica a mettere da parte il “problema immigrazione”…
Quando il portafoglio piange si mettono in un angolo i falsi problemi e si inizia a ragionare con maggiore lucidità sulle responsabilità reali.

Il movimento (e con esso il G8 di Genova) nel film non c’è.
Se non in una pietosissima scena iniziale della serie “comunisti vigliacchi”. Il massacro della Diaz aleggia per tutto il film, ma non si ha il coraggio di affrontarlo direttamente. Troppo rischioso e troppo complicato!
Bonini, in fondo, aveva avuto più coraggio. Il suo libro si apre proprio a Genova, con l’immagine del pubblico ministero Zucca che interroga Michelangelo Fournier, il vice-comandante del famigerato VII Nucleo Mobile (quello della definizione “macelleria messicana). Indimenticabile ed agghiacciante l’elenco completo di tutti i referti medici delle vittime del massacro della notte tra il 21 ed il 22 Luglio 2001.
Tanto per citarne uno… Donna, ventisette anni, tedesca: “Trauma cranico celebrale con frattura della rocca petrosa sinistra. Ematomi cranici vari. Policontusioni al dorso, spalla, arto superiore destro. Frattura della mastoide sinistra. Ematomi alla schiena ed alle natiche. Prognosi riservata”. Mi viene prepotente un dubbio.
Il film è sostanzialmente ambientato tra la morte di Raciti a Catania e la morte di Gabriele Sandri al maledetto autogrill di Arezzo. I nemici giurati dei celerini sono dunque gli ultras (anche se entrambi i gruppi hanno le stesse idee).
Se il film fosse stato ambientato oggi, dopo la Val di Sua e Roma, i nemici pubblici numero uno chi sarebbero?
I fantomatici (e redivivi dopo 10 anni di naftalina) Black Bloc?

Indubbiamente nel film ci sono anche momenti interessanti che magari potevano essere sviluppati meglio.
Per esempio tutta la vicenda di Mazinga e del giovane figlio.
Il primo, nazista in divisa. Il secondo, nazista col bomber.
La tensione tra i due personaggi sale per tutto il film e si concretizza nello scontro finale.
Scontro che però vede una soluzione “all’italiana”…perché in fondo, il giovane nazi è pur sempre il “figlio di un collega”.
Oppure una delle scene d’apertura: la carica iniziale (da travaso di bile) ad un gruppo di operai sardi bloccati al porto di Civitavacchia. Un fatto realmente accaduto che riporta alla mente tante altre botte a lavoratori come quelli della Innse, quelli della Fiat di Melfi e di Pomigliano, quelli dell’Alcoa di Porto Vesme. Per carità  di patria mi fermo qui perché l’elenco sarebbe lungo, lunghissimo. Magari il regista avrebbe potuto approfondire di più la vicenda…

Anche il finale lascia un po’ persplessi.
Siamo nella notte infernale seguita all’omicidio di Sandri da parte di un agente della Polizia Stradale (Spaccarotella).
Sulla spianata dell’Olimpico, i nostri “eroi” attendono il momento della resa dei conti. In pochi, coraggiosi e massicci (manco fossero i 300 di Leonida alle Termopili) aspettano armi in pugno l’assalto finale di tutte le “merde” (come da definizione di Cobra) coalizzate insieme per una notte: romanisti, laziali, camerati e compagni pronti a versare sangue di celerino. “Eccoli, eccoli, eccoli”…mormora Cobra, spalla a spalla con Mazinga e Negro (gli ultimi sopravvissuti) mentre parte l’assalto finale. Gli assaltatori non vengono mostrati. Sono una presenza spettrale e mostruosa.

Forse ho osservato il film con la lente deformata del militante. Vorei capire quel che può aver pensato una persona “normale” forse shockata nel vedere la pratica consueta della violenza e dell’illegalità in divisa.
E’ ovvio che se si prendono come punti di riferimeno i vari Maresciallo Rocca, Distretto di Polizia e compagni cantante il livello è imparagonabilmente superiore. Forse, lo ribadisco, è mancato un po’ di coraggio.
Anche perché la Cassazione per i processi del G8 si avvicina ed è fin troppo facile fare il profeta in patria…
I manifestanti si prenderanno 10 anni e più di galera per tre vetrine sfondate, i responsabili di Diaz e Bolzaneto condanne ridicole e prescrizioni varie.

Un suggeriento finale a Sollima che comunque si è dimostrato aperto alle critiche ed al dibattito.
Vista la sua passione per film maschili in cui l’amicizia virile la fa da pardona perché non girare un film sulla Banda Bellini?

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Una risposta a “ACAB, dopo la contestazione, la recensione”

  1. davide steccanella ha detto:

    Idea geniale poi il libro di Philomat è un film già belleche fatto, una storia incredibile quella della banda del casoretto e c’è tutta la MIlano del decennio 68/77

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