Golpe, la giustizia di Erdogan: 337 condannati all’ergastolo

Sono militari e sono i civili i 337 imputati condannati ieri all’ergastolo in Turchia in uno dei tanti maxi processi per il tentato golpe del 15 luglio 2016.

Che la scure erdoganiana si fosse abbattuta sul paese già all’indomani del fallito colpo di stato è ormai storia. I mesi successivi hanno registrato implacabili retate e licenziamenti di massa, nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone: 292mila sbattute dietro le sbarre, 150mila costrette a lasciare il proprio lavoro.

Accademia, esercito, media, magistratura, ministeri e uffici pubblici, non c’è stato settore che non sia stato travolto dalla vendetta politica dell’Akp.

E ridisegnato: a quattro anni da allora, Erdogan ha costruito un paese i cui vertici e le cui basi sono state affidate a personalità a lui fedeli, spazzando via ogni forma di opposizione, un golpe al contrario che ha stravolto l’architettura e la geografia politica della Turchia: se fin dall’inizio il governo ha puntato il dito contro l’ex alleato del presidente, l’imam Fethullah Gülen, e la sua rete Hizmet, ogni voce critica è diventata potenziale e concreto target, dalla stampa libera ai progressisti, dal partito filo-curdo Hdp agli artisti.

La sentenza di ieri suggella un lungo percorso di erdoganizzazione della Turchia: come 2.500 persone prima di loro, in 337 sono state condannate a vita per omicidio, tentato omicidio del presidente e violazione della Costituzione nell’ambito del maxi processo iniziato nell’agosto 2017 contro 475 imputati.

Di questi, secondo l’agenzia di Stato Anadolu, 335 sono già in carcere in detenzione preventiva. A quattro imputati, etichettati come «imam civili», «capobanda» della rete guleniana, sono stati comminati 79 ergastoli aggravati.

Ergastoli aggravati anche per i 25 piloti degli F16 che colpirono il parlamento e la strada verso il palazzo presidenziale la notte tra il 15 e il 16 luglio 2016: la pena peggiore, in pratica un isolamento lungo una vita intera, senza possibilità di chiedere la condizionale.

Chi era presente ieri parla di un’aula di tribunale – attrezzata nella prigione di Sincar, nella provincia di Ankara – strapiena di avvocati e personale della sicurezza. Uno degli imputati ha protestato, il giudice gli ha ordinato più volte di sedersi, poi ha letto la sentenza.

Non è finita in quell’aula, però. Se 289 processi sul golpe sono già stati chiusi, dieci sono tuttora in corso e non cessano le retate e la repressione. Ieri all’alba in un’operazione di polizia a Istanbul sono stati arrestati 19 tra giornalisti, politici, membri di ong.

Tra loro il vice sindaco di Sisli, uno dei 39 distretti di Istanbul, Cihan Yavuk; membri del partito di sinistra Hdk e del partito filo-curdo Hdp; il co-presidente della Marmara Association che opera al fianco delle famiglie dei prigionieri politici.

Dopotutto appena due giorni fa era stato lo stesso Erdogan a minacciare azioni legali contro uno dei suoi consiglieri, Bulent Arinc, che aveva chiesto il rilascio del leader dell’Hdp Selahattin Demirtas e dell’imprenditore-filantropo Osman Kavala.

Per il presidente Demirtas è «un terrorista» e «non esiste alcuna questione curda nel paese». Arinc si è dimesso, il leader Hdp e Kavala ovviamente restano in prigione.

di Chiara Cruciati

da il Manifesto del 27 novembre 2020

 

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