Hong Kong in movimento
Un dettagliato articolo di Simone Pieranni sulle proteste in corso ad Hong Kong e sui possibili scenari che si aprono per il futuro della regione.
“Hong Kong non esiste, è un miraggio: la maggioranza delle persone può solo guardare le vetrine splendenti, senza comprare nulla. Per questo prima o poi le cose cambieranno”. Nel 2011 sono stato a Hong Kong per un lungo periodo durante il quale ho incontrato Leung Kwok-hung, detto «Lunghi Capelli», un socialista, come si definisce, che era riuscito a essere eletto nel Consiglio Legislativo (la frase sul “miraggio” è sua) e altri attivisti, specie sindacalisti del porto. Nel 2011 avevo ormai superato la sensazione straniante che Hong Kong regala a chi arriva dalla Cina, un insolito mix che appare quasi sempre perfetto a un primo sguardo, perché rappresenta come potrebbe essere la Cina, un luogo che per quanto ancora non completamente libero, permette di immaginare come potrebbe funzionare la coesistenza di “caratteristiche cinesi” e tradizioni parlamentari di tipo occidentale.
Nel 2011 l’immagine che mi aveva lasciato l’ex-colonia era ben diversa: pareva che Hong Kong coltivasse al proprio interno stesse contraddizioni cinesi, ovvero prendeva le sembianze di un luogo nel quale a stare bene erano per lo più i ricchi. Nonostante questo la città da sempre è orgogliosa, della propria tradizione di lotte e di proteste e non ha mai nascosto, tra le pieghe delle categorie sociali più in difficoltà, una diffidenza pesante nei confronti di Pechino.
La storia di Hong Kong è cambiata nel 1997, quando è passata ufficialmente alla Cina, come regione amministrativa speciale. A deciderne le sorti erano stati Margaret Thatcher e Deng Xiaoping, nel 1984. Poco prima di lasciare Hong Kong alla Cina gli inglesi avevano deciso di istituire un sistema semi-democratico, che prima non c’era, secondo il quale una parte dei seggi (35 su 70) del Consiglio Legislativo potevano essere eletti dai cittadini. Un’altra parte – la restante metà – erano eletti tramite collegi professionali sulla base di elettorati limitati e con il tempo sotto il totale controllo di Pechino.
L’accordo tra Cina e Gran Bretagna prevedeva l’esistenza del cosiddetto modello “un paese due sistemi” valido fino al 2047, anno nel quale Hong Kong passerà definitivamente e in toto alla Cina.
“Un paese due sistemi” si basa sul seguente assunto: Hong Kong è Cina – come lo è sempre stato prima del trattato di Nanchino dopo le guerre dell’oppio che sancì il passaggio della città alla corona britannica – ma è retta da un sistema differente da quello in vigore in Cina. Il pensiero di Deng, probabilmente, era stato condizionato dall’ottimismo del momento: nel 1984 in Cina si pensava che a seguito delle riforme economiche, sarebbero arrivate anche quelle politiche. Si riteneva pertanto che con il tempo i due sistemi sarebbero stato più o meno simili. Deng non poteva prevedere che il 1989 oltre a cambiare le sorti del mondo, deviò completamente questo afflato riformista della Cina. Il 1989 finì per rafforzare ancora di più la presa del Partito Comunista con i risultati che possiamo vedere oggi: un paese perfettamente inserito nelle logiche del capitalismo mondiale, che pur mantenendo alcuni elementi socialisti è dominato da un Partito Comunista in grado di controllare ogni anfratto sociale e politico del paese.
Hong Kong e la Cina, dunque, hanno finito per percorrere due strade completamente diverse. E i nodi insiti in queste differenze hanno cominciato a scorgersi già nel 2014, quando proteste (La cosiddetta “Rivoluzione degli ombrelli”) tennero per giorni persone per strada in nome della richiesta di avere il suffragio universale, come garantito dalla Basic Law, approvata anche dalla Cina.
Le proteste che da settimane tengono banco a Hong Kong in questi giorni affogano le loro rivendicazioni in questa storia, nelle differenze tra i due territori e in un fattore determinante: i giovani di Hong Kong sono cresciuti in una società libera, pur con i limiti che abbiamo visto. Si tratta di un elemento che a Pechino fanno decisamente fatica a comprendere e che costituisce uno dei punti sui quali non ci sarà mai accordo tra Cina e giovani di Hong Kong.
Il motivo scatenante delle proteste, come spesso avviene per fenomeni di questo tipo, risiede nella volontà da parte della governatrice di Hong Kong Carrie Lam di chiedere l’approvazione di una legge che avrebbe permesso l’estradizione di sospettati in Cina. Si tratta di un provvedimento che non è mai stato completato, considerando che l’iter si è ben presto fermato a causa delle manifestazioni e che prevedeva l’estradizione per reati che prevedessero almeno sette anni di pena.
Si è trattato di un gesto che è bastato ai giovani di Hong Kong per capire una cosa molto semplice: il tempo stringe, il 2047 è più vicino di quanto si creda e quindi è necessario agire subito. La legge, infatti, è stata letta come l’ennesimo tentativo di Pechino di limitare l’autonomia garantita dalla Basic Law. Il pretesto dunque è stato sufficiente per scatenare studenti e diverse categorie di lavoratori a occupare per settimane le strade della città domandando inizialmente il ritiro della legge e poi ben presto anche il suffragio universale.
Chi sono dunque i giovani di Hong Kong? Nei giorni “caldi” delle proteste ho avuto modo di parlare con molti di loro e tutti si sono ritrovati d’accordo con K. Una ragazza di vent’anni: “Sono nata e cresciuta a Hong Kong. Devo dire che gli abitanti di questa città mi hanno sorpreso ogni minuto da quando è iniziato questo movimento. Siamo uniti e connessi, anche nelle nostre differenze. E anche in strada ci siamo evoluti, siamo diventati davvero acqua. Non ho davvero idea di come finirà questa protesta, ma ho chiara una cosa: adesso o mai più. La Cina prenderà provvedimenti per limitare ulteriormente la nostra libertà? Se vogliono schierare l’Esercito di Liberazione Popolare facciano pure, noi siamo qui”.
La caratteristica unica di queste proteste, mi ha spiegato T. 23 anni, “è che non esiste un singolo leader o comandante. Tutte le cose sono organizzate dai manifestanti. È inutile che il governo inviti “alcune persone” a dialogare poiché noi rappresentiamo solo noi stessi. Ciò che il governo deve fare è solo rispondere direttamente alle nostre richieste”. Questo è un punto importante per i manifestanti, benché pragmaticamente possa costituire un problema: una soluzione potrebbe arrivare, infatti, se fosse Pechino a riconoscere come interlocutore qualcuno degli organizzatori delle proteste.
I ragazzi e le ragazze di Hong Kong si sono dimostrati organizzati, creativi e attenti soprattutto a eludere il controllo anche in rete delle autorità, tanto quelle cittadine quanto quelle cinesi. E il 4 settembre scorso è parso che la loro lotta sia arrivata a uno snodo fondamentale.
Con un messaggio televisivo – infatti – il 4 settembre la governatrice di Hong Kong Carrie Lam ha annunciato il ritiro del disegno di legge sulle estradizioni.
Si è trattato di una decisione tardiva ma che ha finito per aprire nuovi scenari nella città, considerando che il ritiro della legge era la prima richiesta dei manifestanti. Il problema, oltre al tempismo, è che nel tempo le proteste hanno assunto nuove forme finendo per presentare al governo nuove richieste. Carrie Lam nel suo messaggio ha parlato anche delle altre quattro richieste che al momento rendono molto distanti le parti. Per quanto riguarda la richiesta di un’indagine trasparente e imparziale sulle violenze della polizia durante le manifestazioni la governatrice ha detto che verrà avviata un’inchiesta da parte degli organi preposti a controllare il lavoro della polizia.
Per quanto riguarda la richiesta di una completa amnistia in grado di consentire la liberaazione gli arrestati, la risposta di Lam è stata l’unica netta e senza appello: no.
Sulla richiesta di non catalogare le manifestazioni come «sommosse», Lam ha precisato che il giudizio politico su quanto successo non influenzerà il lavoro della magistratura, mentre sulla richiesta di suffragio universale la governatrice ha confermato che è previsto dalla costituzione, specificando però che richiede un dialogo in altre condizioni ambientali.
Dopo il suo messaggio si possono fare alcune valutazioni, tenendo conto che in questo scenario non ci sono solo Carrie Lam e i manifestanti ma anche Pechino.
La decisione di ritirare il disegno di legge può essere vista, innanzitutto, come una astuta mossa strategica: di fatto Lam toglie dalle parole d’ordine dei manifestanti il punto all’origine della protesta. Può essere che molti si possano ritenere soddisfatti, rompendo così il fronte unitario delle proteste. Analogamente questa decisione potrebbe anche andare bene a Pechino: la Cina a questo punto potrebbe giustificare decisioni più pesanti, come la proclamazione dello stato d’emergenza, nel caso le manifestazioni continuassero nel loro virulento attacco alle autorità cittadine e a quelle cinesi. Lo scopo della mossa di Lam, dunque, potrebbe essere quello di dividere i manifestanti.
Naturalmente c’è anche un altro scenario: Lam sembra ormai molto più di un’anatra zoppa, ha di sicuro perso la fiducia di Pechino e potrebbe aver preso la decisione senza avere un via libera ufficiale dalla Cina. È un’ipotesi piuttosto improbabile ma non impossibile. In questo caso Pechino potrebbe smentirla e costringerla alle dimissioni, decidendo così di procedere nel modo più duro. La stessa Lam nell’audio pubblicato da Reuters due giorni prima del suo annuncio televisivo assicurava un gruppo di businessmen che Pechino non avrebbe intenzione di schierare l’esercito, ma a questo punto tutto cambia.
Altra suggestione: il primo ottobre si celebrano i 70 anni della Repubblica Popolare e può essere che la Cina abbia chiesto a Lam di stringere sui tempi, per verificare le condizioni di celebrazioni «sobrie ma solenni» come le ha definite la stessa governatrice. Il quadro diventa ancora più complesso se andiamo ad analizzare le reazioni che potrebbe suscitare l’annuncio di Lam tra i manifestanti. Il movimento si è sempre dichiarato senza capi e orizzontale eppure alcune organizzazioni sembrano più protagoniste di altre, come ad esempio quella di Joshua Wong giovane leader che pare essere piuttosto incauto nel gestire la propria notorietà (si è fatto fotografare con esponenti americani, un fatto che non gioca a favore del resto delle proteste).
Date queste premesse, benché Lam abbia preso una decisione tardiva, sarebbe interesse di chi protesta riconoscere rappresentanti in grado di cogliere la palla al balzo e gestire un livello di dialogo che ora come ora appare possibile, benché non sia scontato. La fiducia in Lam però è tragicamente ai minimi storici e in pochi ritengono ci si possa fidare delle sue parole, come confermano le reazioni in gran parte negativi dei manifestanti sui loro canali di comunicazione. Le proteste, dunque, proseguiranno.
Tutto questo si confronta con il dilemma di Pechino: quasi tutti i sinologi sono concordi nel rileggere tutta la storia imperiale cinese proprio attraverso la complessità del rapporto tra centro e periferia. È questa dinamica a costituire il motore politico della Cina imperiale. A questo proposito il concetto di impero in Cina è arrivato dall’Occidente (e dal Giappone) durante il periodo Qing, l’ultima dinastia cinese. Nella visione cinese, infatti, vigeva il concetto di tianxia «tutto quanto sta sotto il cielo». Si tratta di una visione che rapportandosi non solo agli altri, bensì al cosmo intero, concepiva l’influenza cinese attraverso cerchi concentrici capaci di arrivare anche in posti ben distanti territorialmente dal «centro».
Il sistema dei tributi fu uno degli strumenti che la Cina utilizzò per gestire questa serie di relazioni. Il concetto di Stato-nazione ha complicato enormemente le cose e Hong Kong è un esempio di quanto questa relazione centro-periferia sia ancora oggi un dilemma in Cina e quanto la «modernità anti-moderna» come l’ha definita l’intellettuale Wang Hui, abbia portato Pechino a dover concepire nuove forme di interazione con le sue articolazioni periferiche.
C’è poi un tema contemporaneo: cosa farà Xi Jinping? Esistono forze interne che, forse, stanche del suo enorme potere potrebbero spingere a prendere la decisione sbagliata su quanto sta accadendo a Hong Kong. Non è semplice saperlo, ma l’intensa attività di puntellamento della propria autorità ha per forza di cose lasciato strascichi.
Parte dell’esercito cinese è a Shenzhen, si tratta di un dato confermato perfino dall’ambasciata cinese in Italia; nella sua newsletter il personale dell’ambasciata ha specificato che “secondo quanto stabilisce la legge della Repubblica Popolare Cinese, tra i compiti della polizia armata figurano la partecipazione a operazioni volte a sedare ribellioni, rivolte, incidenti violenti e illegali, attacchi terroristici e altre minacce alla sicurezza sociale”.
La mossa di Lam sembra il giusto compromesso per Pechino, in grado di salvare la faccia alla Cina, concedendo però qualcosa ai manifestanti. Ma se i ragazzi e le ragazze di Hong Kong dimostreranno di non accontentarsi, lo scenario cambierà ancora. E tutte le opzioni torneranno sul tavolo dei dirigenti cinesi.
Simone Pieranni
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E in tutto questo che ruolo giocano gli USA?
Ha ragione chi dice che abbiano fomentato le proteste?