Jenin, il ritorno dei palestinesi nel campo distrutto

Martedì notte, mentre le truppe israeliane lasciavano Jenin, Ibrahim Fayed, ospitato da conoscenti in un quartiere periferico della città, ha preferito non avventurarsi in strada come avevano fatto altri abitanti del campo profughi, teatro per due giorni dell’operazione «Casa e giardino», un nome rassicurante dietro il quale si celano raid aerei, distruzioni e uccisioni.

«Non mi fidaco degli israeliani, ho pensato che l’annuncio del ritiro fosse una trappola e ho preferito non tornare subito a casa come hanno fatto altri», ci dice accennando un sorriso. Fayed, un manovale, nel campo profughi non ha una confortevole casa con giardino come quelle dei coloni israeliani in Cisgiordania che il premier Netanyahu vuole proteggere. Però è la sua casa, misera, minuscola ma pur sempre la sua casa. E vuole trovarla tutta intera. L’ingresso nel campo è uno choc per lui e per noi.

Le pale delle ruspe militari israeliane, giganti con cingoli alti alcuni metri, hanno spaccato, sollevato e accumulato a destra e sinistra il manto d’asfalto delle strade portandosi dietro parte della rete idrica e i pali dell’elettricità. Il campo è senza corrente e internet. I comandi militari spiegavano nei giorni scorsi quelle devastazioni con la necessità di «eliminare gli ordigni» che i gruppi armati avrebbero piazzato sotto l’asfalto o ai lati delle strade per colpire i mezzi blindati «mettendo a rischio prima di tutto la popolazione civile palestinese».

Un’«opera di bonifica» poco convincente. I ventimila abitanti piuttosto sentono di aver subito una brutale «punizione collettiva». Gli edifici distrutti e bruciati completamente non sono molti ma alcuni hanno subito danni seri. E dovranno essere riparati prima che le famiglie possano tornarci a vivere.

Dovrà essere riparata anche la moschea Tawalbeh al centro del campo, danneggiata dai bombardamenti, e dove i militari israeliani dicono di aver trovato armi ed esplosivi. Le finestre sono state frantumate e le sue porte danneggiate. «La mia casa è tutta intera», quasi urla Ibrahim Fayed emettendo un sospiro di sollievo.

Lo salutiamo e andiamo più avanti ad accertarci dello stato del Teatro della Libertà, il Freedom Theatre, una delle rare opportunità di produzione culturale per i giovani di Jenin e del campo profughi. A partorirlo fu Arna Mer, ebrea sposata a un palestinese, che ha dedicato parte della vita ai profughi, promuovendo la recitazione tra i più piccoli. Una storia che venti anni fa ha appassionato il mondo intero e che il figlio, l’attore Juliano Mer, ha raccontato in un celebre documentario, I bambini di Arna, realizzato dopo l’assedio di Jenin del 2002.

Sconosciuti hanno assassinato Juliano nel 2011, poche ore prima del rapimento e dell’omicidio a Gaza di Vittorio Arrigoni. Il Teatro della libertà c’è ancora. Le esplosioni di un paio di razzi però hanno danneggiato l’ingresso dell’edificio.

E a pochi metri dal teatro, come fossero sculture di metallo a condanna della guerra, ci sono le carcasse annerite dal fuoco di sei automobili in un vicoletto tra due palazzine. I proprietari credevano di averle messe al sicuro. Non è andata come speravano.

In strada un polverone, slogan politici e invocazioni religiose annunciano in lontananza i funerali dei dodici palestinesi uccisi dalle unità speciali israeliane. Migliaia di persone, nelle strade devastate, in alcuni punti fangose, seguono i corpi avvolti in bandiere palestinesi e appoggiati su tavole di legno portate in spalla da parenti e amici. Vanno verso il cimitero in fondo al campo, accompagnate da combattenti armati di mitra, alcuni con il volto coperto altri no.

Issano le bandiere di un po’ tutte le organizzazioni palestinesi, laiche e islamiste e invocano la «Brigata Jenin», simbolo nel nord della Cisgiordania della lotta armata palestinese all’occupazione. Ci sono anche le bandiere del movimento Fatah ma da queste parti i militanti non si riconoscono nei suoi vertici legati all’Autorità Nazionale Palestinese del Presidente Abu Mazen.

«La Sulta (l’Autorità) dorme», ci hanno ripetuto tanti a Jenin commentando la mancanza di reazioni significative dell’ANP mentre le forze armate israeliane entravano a Jenin. Quando ieri Mahmoud Al Aoul, il numero due di Fatah, è giunto nel campo profughi e da un palco ha provato a rivolgere messaggi di solidarietà e sostegno agli abitanti, è stato sommerso dagli insulti. A centinaia lo hanno cacciato via scandendo «Barra, Barra» (fuori, fuori).

Un altro funerale, stavolta con la partecipazione di migliaia di israeliani, si è svolto al cimitero militare al Monte Herzl di Gerusalemme dove è stato sepolto il sergente dell’unità speciale Egoz, ucciso martedì sera da spari palestinesi.

Al termine dell’operazione «Casa e giardino» il premier Netanyahu ha dichiarato che le incursioni nelle città palestinesi non saranno «una tantum». Lo stesso ha ribadito il ministro della difesa Yoav Gallant. Eppure, guardando alle finalità enunciate dai comandi israeliani dell’attacco al campo di Jenin, ossia «smantellare» i gruppi armati e dare un colpo alla militanza palestinese proprio nella sua roccaforte, è arduo credere che l’operazione abbia raggiunto i suoi risultati.

Israele ha impiegato almeno mille soldati, droni, intelligence, unità speciali addestrate per mesi e molte altre risorse. La Brigata Jenin e altri gruppi armati però sostengono di aver contrastato le azioni israeliane riuscendo in non pochi casi a impedirle ad al-Damej, a via Nablus e a Jabriyat. Sono solo proclami? Forse. Più di un analista però ritiene che i colpi inflitti ai gruppi armati di Jenin non siano stati decisivi.

Il costo vero, come sempre, lo stanno pagando i civili. «Vi preghiamo di limitare il consumo di acqua e di preservare le quantità a vostra disposizione», ha comunicato agli abitanti del campo il comune di Jenin. Decine di operai lavorano senza sosta da ore per riparare la rete idrica e quella elettrica.

di Michele Giorgio

da il Manifesto del 6 luglio 2023

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