Le maschere ideologiche nella guerra in Ucraina 

Racconti e riflessioni dal territorio. Contributo frutto dell’esperienza diretta insieme ad un gruppo di volontarx in network con la rete antiautoritaria Solidarity Collectives. Le attività umanitarie hanno interessato la regione di Mykolaiv (zona del fronte Sud).

Dopo la recente presa di Avdiivka da parte russa, gli scontri si sono spostati nelle cittadine alla periferia ovest. La decisione ucraina del ritiro, per contenere lo stillicidio dei giovani in prima linea, avviene a pochi giorni dal cambio del vertice delle forze armate. Le tensioni interne accumulate tra Zelensky e Zaluzhny sembrano essersi temporaneamente risolte con la sostituzione di quest’ultimo. Rimane però pesante la condizione sul campo, anche a causa dell’inizio di una nuova avanzata russa sul fronte sud di Zaporizhzhia. Le elezioni americane pongono un grande interrogativo. In quale direzione si muoverà l’asse euro-atlantico per contrastare il proprio inevitabile declino. Da ciò dipende molto del destino dell’Ucraina. La capacità di difesa è direttamente connessa con le volontà di attori più grandi.

Il così centrale coinvolgimento degli imperialismi ha prodotto molteplici interpretazioni sulla natura del conflitto. Sono saltati alcuni riferimenti politici retaggio novecentesco. Sin dal principio nel 2014 la vicenda è stata approcciata tramite schemi lontani dal contesto. Le repubbliche del Donbas hanno suscitato simpatia negli ambienti della sinistra in quanto associate a slanci di indipendentismo popolare, anche a causa dei richiami sovietisti nella simbologia locale. Ma senza troppo interesse nell’indagare su come gli oligarchi in affari con la Russia gestivano la regione. Credo che fare un salto indietro possa aiutare a dare una cornice più appropriata ad una immagine complessa da mettere a fuoco. Con la rivoluzione arancione del 2004 il potere del filorusso Janukovyc inizia a traballare. Le pressioni sono guidate dall’oligarca Tymoshenko, con forti spinte europeiste. Le campagne del partito regionalista di Janukovyc iniziano a concentrarsi maggiormente sul fortificare un senso di identità nella sua terra di origine, il Donbas. L’ideologia lavorista di eredità sovietica gioca un ruolo identitario, infatti è proprio in quelle ricche miniere di carbone che venne costruito il mito di Stachanov. Con la vittoria delle proteste di Euromaidan a febbraio 2014 e la cacciata definitiva della presidenza, le manifestazioni nell’Est del paese contro il governo filo-occidentale della lontana Kiev si intensificano. Le istanze federaliste di gran parte della popolazione si esasperano, fino al colpo di mano delle milizie separatiste guidate da Igor Girkin, un promotore della monarchia assoluta in Russia, successivamente incarcerato per aver criticato la strategia militare di Putin. Kiev avvia quindi la cosiddetta operazione antiterrorismo (Ato) per riprendere il controllo di Slov”jans’k, Donetsk, Lugansk e Charikiv. All’epoca il capo di Stato maggiore era proprio Syrsky, il neo-nominato alla dirigenza dell’esercito. Alle forze regolari si affiancano formazioni volontarie.
Vogliono rispondere a ciò che è percepito come un attacco all’integrità della nuova Ucraina, appena affrancata dalle ingerenze ad Est. L’ombra di Putin che, uscito dalla porta vuole rientrare dalla finestra, spinge alcuni degli elementi più combattivi della rivolta di piazza Maidan a organizzarsi.
E’ in quel momento che nascono alcune delle formazioni che diverranno più note, come i neonazi di Azov e Pravyj Sektor, ma anche numerosi altri gruppi come Donbas e Aydar, con composizione politicamente eterogenea. Durante le proteste di Euromaidan la propaganda russa aveva ripescato il termine mazepista per denigrare i manifestanti. Questa espressione in Russia è diventata sinonimo di traditore, riferendosi all’ultimo atamano cosacco Ivan Mazepa alleatosi con la Svezia, nel tentativo di emancipare il territorio ucraino da quel processo di assorbimento che l’impero stava mettendo in atto. Spesso espressioni e simbologie del passato riemergono, talvolta risignificate. È singolare che in questo caso si ripresentino immaginari del tutto contrastanti all’interno dello stesso lato di ciascuno dei due fronti.

In questo quadro abbiamo come esempi contrapposti la brigata Azov, con riferimenti ideologici neonazisti, accorpata all’esercito in seguito ad una riforma del 2017 che ha regolamentato le formazioni volontarie.
E al contempo la nascita nel 2022 di battaglioni con componenti antifascisti, libertari e esponenti del movimento LGBTQ. In seguito si sono disgregati per distribuirsi sul fronte nei vari battaglioni a formazione mista. Da parte russa il richiamo ideologico che ha fatto eco a livello internazionale ha mosso sia componenti della galassia vetero-staliniana, attirati dalla difesa delle repubbliche cosiddette autonome del Donetsk e Luhansk, in un nostalgico revival sovietista. Sia elementi neofascisti europei che vedono nel regime putiniano l’alternativa conservatrice alle democrazie plutocratico-liberali d’occidente.
Dall’interno i gruppi neonazisti sono stati tra i primi ad aderire massicciamente alla chiamata alle armi, già organizzati in milizie dal 2014. Ad utilizzare la retorica sovietica è invece stato lo stesso governo, che a Mariupol e Cherson ha issato la bandiera rossa della 150 divisione fucilieri, ribattezzata “della vittoria”, divenuta simbolo della caduta del nazismo perché issata nel 1945 a Berlino dalle truppe dell’Armata Rossa. E’ evidente il tentativo propagandistico di Putin di presentare i russi come liberatori, rimandando agli schemi del Patto di Varsavia, quando i propri confini si estendevano ben aldilà di quelli attuali.
Oltre la nauseante demagogia intrinseca nel discorso, a stonare sono anche le bandiere zariste con lo stemma dei Romanov apparse durante eventi pubblici presidiati dallo stesso Putin.
In questo caso è alle glorie della Russia imperiale che si fa riferimento come metafora della grandezza ambita. E’ evidente che le categorie ideologiche novecentesche non siano sufficienti a interpretare il conflitto, ma che la partita riguardi invece il mero controllo territoriale, la vecchia sporca spartizione del mondo tra blocchi di potere in sfere di influenza. Non va però dimenticato che dentro questi territori, stretta dal giogo imperialista di tutte le potenze in campo, c’è una popolazione con volontà proprie, che non va solo vittimizzata a causa del sangue versato, ma riconosciuta nelle proprie aspirazioni.
La risposta ucraina, che ha dimostrato immediatamente una tenace resistenza coinvolgendo centinaia di migliaia di volontari e volontarie mostra il rifiuto categorico a sottostare al dispotismo di Mosca.

La mancanza attuale di vere alternative in campo è una triste e crudele realtà. Così mentre la NATO trasforma la Polonia in una caserma militare, ancora una volta osserviamo un’escalation di venti di guerra soffiare in ogni direzione. Al di là di ogni gioco geopolitico, in Ucraina, c’è chi da decenni si batte per la propria sopravvivenza culturale. Una forte determinazione era già evidente dalle piazze di Euromaidan.
Il presidente filo-russo Janukovyc fu messo in fuga e destituito nonostante i cecchini sparassero sui manifestanti. La repressione russa in Ucraina ha radici lontane. Nel 1876 vennero introdotti una serie di divieti che mettevano al bando libri, spettacoli teatrali, sermoni in lingua e discipline scolastiche.
Gli insegnanti sospettati di “ucrainofilismo” vennero deportati. Negli anni Trenta lo stalinismo impose una feroce assimilazione alla cultura russa cancellando un’intera elite intellettuale, in quello che è ricordato come il “Rinascimento fucilato”. Negli anni ’70 e ’80 altre riforme in ambito accademico seguirono questo filone.

Nella memoria collettiva russa l’evento più drammatico del Novecento è l’invasione nazista.
Putin ha costruito l’attuale propaganda sulla denazificazione, giocando sul ruolo del collaborazionista Stepan Bandera, eclissando che gli ucraini durante la Seconda Guerra Mondiale combatterono sia contro i rossi ad est, che contro i bianchi ad ovest, e che le truppe del Reich marciarono inevitabilmente anche sul territorio ucraino, compiendo altrettanti massacri. Nella memoria ucraina d’altra parte la più grande catastrofe del secolo scorso è l’Holodomor, la carestia volutamente indotta da Stalin nel ’32-’33 ai fini di piegare la popolazione colpevole di aspirazioni indipendentiste. Molti paesi hanno recentemente riconosciuto l’intenzionalità di quel genocidio, alla luce di documenti emersi dopo l’apertura di alcuni archivi sovietici. La repressione di Stalin si abbattè in particolar modo contro l’Ucraina proprio perché considerata terra di casa, anche in virtù della comunanza del ceppo linguistico, similmente ai bielorussi però allineati. Ma il rapporto tra Russia e Ucraina non è fatto solo di brutture, c’è anzi un incredibile intreccio che lega molti aspetti dei due paesi. Ciò che rende speciale l’Ucraina è proprio questa mescolanza, essere terra di mezzo tra Est e Ovest. Tipicità che l’ha resa unica nella sua bellezza, ma anche condannata ai tormenti da cui cerca di affrangersi. A questo proposito ricevo molti stimoli durante il tempo passato in compagnia di Boris e Lyila, due volontarx della rete di artisti di Kyiv con sede a “Ceramic beat (Psarnia)”. Boris viene da Charkiv, nel profondo Est ucraino, spesso racconta divertito aneddoti sulla sua città natale, tradizioni culinarie, architettura, carattere del popolo. Le contaminazioni con la cultura russa, sia antiche che di epoca sovietica, sono immediatamente evidenti. Le descrizioni di questa fusione di usi e costumi scorrono con una tale naturalezza che mi impressiona. Dov’è quella rabbia antirussa? Dov’è quel cieco odio etnico? Il nazionalismo sfrenato? Sicuramente del rancore c’è, insieme al dolore per le tante ferite inferte da questo vicino di casa maestoso e prepotente così amato e odiato. Anche Lyila mi aiuta a visualizzare meglio l’immagine sfuocata che ho del contesto. “Quelli che sono rimasti più shockati sono le vecchie generazioni, crescendo sotto l’URSS, nonostante i problemi di un governo autoritario, avevano un forte legame con la Russia. Guardavano ancora i loro canali televisivi ed erano cresciuti con un sistema molto vicino a quella cultura, si sentivano davvero fratelli, perché gli era stato sempre detto questo.
E poi d’improvviso si sentono paragonati a dei nazisti. L’invasione è stata vissuta come un tradimento difficile da affrontare. Ho supportato i movimenti per la nostra indipendenza, la rivoluzione arancione del 2004 e poi Euromaidan. Alcuni di noi giovani, più legati ad ambienti underground e alternativi, hanno sempre cercato di non schierarsi in modo netto, univoco, con uno dei due modelli culturali, la nostra caratteristica di ucraini è quella di essere nel mezzo, tra est e ovest, è questo che siamo.
Ma come fare quando ti trovi accanto alla Russia, che cerca costantemente di imporsi in ogni modo, fino a volerti schiacciare e annientare. Guardare all’Europa è l’unica direzione possibile. Ho sempre parlato anche russo in modo naturale, ma adesso sentire il suono della mia voce esprimersi in quella lingua mi risulta intollerabile”. Il tema linguistico è un altro nervo scoperto perché buona parte della popolazione è sostanzialmente bilingue, in base alla regione cambia il rapporto nell’utilizzo, divenendo nell’Est quasi una lingua a sé, sostanzialmente un mix tra le due. In reazione alle pressioni russe sempre più aggressive, negli ultimi anni si è accelerato un processo di omologazione, anche guidato dall’altro con leggi in ambito culturale ed educativo. Ma l’Ucraina è stata da sempre attraversata da numerose comunità: “cechi, slovacchi, turchi mescheti, svedesi, rumeni, ungheresi, rom, ebrei, liptak, gagauzi, tedeschi, valacchi, polacchi, tatari di Crimea, armeni. Provenienti dalle miriadi di migrazioni volontarie e forzate che hanno attraversato l’Ucraina nei secoli (Olesja Jaremcuk: Mosaico ucraina, Osservatorio balcani e caucaso Transeuropa)“. Più recentemente turkmeni e giovani dall’area del maghreb, soprattutto studenti che fruiscono dei servizi universitari più accessibili che altrove. Tutti parte integrante della storia del paese e membri attivi della società, tanto che alcune comunità, maggiormente radicate, hanno costituito delle proprie unità di combattenti volontari. Nel libro sopra citato emerge la costellazione di culture che compongono l’Ucraina e il tentativo, attuato dai vari governi, di diversi orientamento, di appiattire questa meravigliosa pluralità in nome di un moderno progetto identitario. In questa direzione si erano mosse le politiche avviate con fermezza da Porosenko, che mentre si allineava completamente a NATO e UE fagocitava i caratteristici tratti multiculturali del paese in nome di una nuova patria compattata.
Questo complesso quadro assume ai miei occhi nuove tinte. Non solo due blocchi di potere economici, in guerra per le sfere d’influenza. Altre sfumature mostrano diversi modelli sociali che da molti anni convivono e confliggono. Una dimensione che va oltre la divisione: neoliberismo anglosassone Vs capitalismo statalista russofilo. Oltre questa scena, predominante, si muovono l’uniformazione linguistica e culturale da un lato, di stampo moscovita o occidentalista che sia, ai fini di fortificare stati-nazione. In opposizione al rullo compressore dell’omologazione c’è invece la possibilità di riconoscere la diversità come valore, elemento intrinseco nella storia di questa terra a metà tra due mondi.

Thymo Nzk (Davide Viganò)

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